sabato 8 settembre 2012

Cordoglio da morti, respingimenti collettivi da vivi

Da Fulvio Vassallo Paleologo
Malgrado i contorni ancora confusi dell’ennesima strage nelle acque prospicienti Lampedusa, nei pressi dell’isolotto disabitato di Lampione, a ovest dell’isola, primo lembo di terra italiano di fronte ai porti tunisini di Mahdia e Monastir, appare ormai certo come il dispositivo di controllo e di salvataggio che prima era dispiegato nelle acque a sud di Lampedusa, anche a 60 miglia a sud dell’isola, operi ormai a stretto ridosso delle isole Pelagie.
Alla dichiarazione di Lampedusa come “porto non sicuro”, formalmente adottata nel settembre del 2011 dal Corpo delle Capitanerie di porto su forte sollecitazione dell’ex ministro dell’interno Roberto Maroni, è seguito il riposizionamento di tutte le unità navali che prima facevano base a Lampedusa, molte delle quali sono state utilizzate per i trasferimenti dei migranti verso Porto Empedocle (Agrigento) e comunque dislocate più a nord, al limite delle acque territoriali italiane. Si è consentito così, per un verso, un avvicinamento alle coste italiane più facile dei mezzi che trasportano migranti, spesso anche pescherecci, che riescono ad eludere la sorveglianza delle unità libiche e tunisine, ma si è impiegato anche più tempo per raggiungere, ( e salvare) in un numero molto minore di casi, i migranti che si trovano ancora in acque internazionali, magari in procinto di affondare nel corso della loro traversata verso la fortezza Europa.
Anche in questo ultimo caso verificatosi nella serata di giovedì 6 settembre, dal momento del primo allarme telefonico fino ai primi interventi di salvataggio, sarebbero passate alcune ore, anche a causa del calare della notte che ha reso più difficili le ricerche. Si è ritenuto forse che lasciare mano libera alle unità libiche e tunisine, alle quali si è permesso di riprendere i migranti in fuga verso l’Europa, consentisse di allentare la sorveglianza nelle acque internazionali a sud e ad ovest di Lampedusa, ed in effetti, rispetto allo scorso anno, gli sbarchi sono diminuiti del 90 per cento. Ma non certo perché Lampedusa è stata dichiarata “porto non sicuro”, una decisione del tutto infondata dal punto di vista tecnico perché non si può qualificare come “non sicuro” un luogo di approdo che nel corso degli anni ha permesso il salvataggio di decine di migliaia di vite, solo perché il locale centro di prima accoglienza e soccorso (CSPA), trasformato impropriamente in centro di detenzione, era stato incendiato durante una protesta dei migranti che vi erano illegalmente trattenuti da settimane.
In realtà, secondo un comunicato dell’ACNUR del 30 giugno scorso, la maggior parte delle imbarcazioni che partono dalla Libia vengono ormai riprese dai mezzi libici che, in base ai vigenti protocolli operativi, intervengono anche in collaborazione con mezzi militari maltesi ed italiani. E si hanno pure notizie di imbarcazioni tunisine o algerine riprese dai mezzi militari di quei paesi e ricondotti nei porti di partenza. Ormai dopo la dura condanna dell'Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell'Uomo per i respingimenti collettivi verso la Libia effettuati dalla nave Bovienzo della Guardia di Finanza il 6 maggio 2009, il "lavoro sporco", consistente nel blocco dei migranti in mare e nella loro riconduzione violenta nei porti di partenza, è stato esternalizzato in base agli ultimi accordi bilaterali con la Libia e la Tunisia. Quanto avvenuto davanti allo scoglio di Lampione costituisce una conferma di quanto è stato sostenuto in varie occasioni anche dal ministro dell’interno italiano Cancellieri, secondo la quale ogni stato rivierasco del Mediterraneo deve sorvegliare le proprie acque territoriali per contrastare l’immigrazione clandestina in Europa. E su questi profili operativi sembrano ancora vigenti gli accordi di cooperazione interforze tra le autorità libiche, tunisine, algerine e quelle italiane.
Rimane dunque da verificare se per il ministro dell’interno italiano, che non manca mai di esprimere il suo rammarico per le vittime, le autorità militari di questi paesi garantiscano il rispetto dei diritti umani ai migranti fermati in acque internazionali e ricondotti nei porti di partenza. Diversi report di importanti agenzie internazionali confermano abusi sempre più gravi da parte di forze militari e di milizie varie a danno dei migranti in transito in Libia. In Tunisia ed Algeria non si registrano violenze tanto gravi, ma dopo il primo tentativo di fuga, qualunque altro imbarco per un viaggio verso l’Europa può essere variamente sanzionato, ed il rimpatrio collettivo non lascia nessuna possibilità di richiedere una qualche forma di protezione internazionale, o di avvalersi della protezione umanitaria una volta raggiunto il territorio italiano.
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Amnesty International ha denunciato uno scarso impegno dell’Unione Europea per evitare che queste tragedie dell’immigrazione continuino a ripetersi. In realtà l'Unione Europea ha bloccato qualunque direttiva in materia di ingresso legale per ricerca di lavoro e si sta impegnando da anni soltanto per armare mezzi da guerra da impegnare nelle missioni di FRONTEX nella "guerra contro l'immigrazione illegale", una guerra che non tocca gli interessi dei trafficanti, ma si rivolge solo contro i corpi e le vite dei migranti. Occorre aprire canali legali di ingresso e salvare appena possibile, subito dopo gli avvistamenti, i migranti in mare su imbarcazioni che non garantiscono la navigazione in condizioni di sicurezza, senza attendere il raggiungimento delle acque territoriali, la soluzione di questioni diplomatiche o l’arrivo dei mezzi militari partiti dai paesi di transito, come la Libia Bisogna fare chiarezza, per altri versi, sulla netta distinzione tra i doveri di salvataggio e di accoglienza e le politiche digestione dell’immigrazione.
Quali che siano le scelte in tema di immigrazione e protezione internazionale o umanitaria, l’obbligo di salvare le vite umane, l’indefettibilità del soccorso in mare,il rispetto dei diritti fondamentali,il dovere di accogliere dignitosamente le persone, non devono più essere messi in discussione in nome di un’astratta esigenza di difendere le frontiere nazionali, frontiere assolutamente permeabili quando si tratta di soddisfare la domanda di lavoro irregolare per assicurare la competitività di interi settori del mercato, ad esempio in agricoltura, o per soddisfare nuove esigenze di welfare, come nel caso delle lavoratrici domestiche e delle badanti.
Non si possono ritardare i soccorsi fino all’ultimo momento utile per evitare il ripetersi di altre tragedie, magari in attesa che arrivino i mezzi della marina libica o tunisina a riprendersi persone in fuga a rischio della vita, con la concreta possibilità che le “carrette” affondino già in acque internazionali, oppure che rimangano per giorni in alto mare, durante le consuete dispute tra Italia e Malta e i mezzi dell’agenzia Frontex sulla competenza a condurre azioni di salvataggio e sul luogo di sbarco dei naufraghi. In guerra e nella guerra contro i migranti irregolari, la verità è la prima vittima, comunque sarebbe utile rompere il segreto di stato che circonda queste vicende, anche quando non è più giustificato dalle prime indagini di polizia, per comprendere perchè i migranti arrivano ancora dalla Tunisia e dalla Libia a Lampedusa ad ondate successive, con aperture e chiusure continue, con modalità diverse di esercizio della libertà di fuga loro consentita( a caro prezzo) .
E per quelli che riescono a completare la traversata, se provengono da paesi come la Tunisia, l’Egitto o l’Algeria, dopo il salvataggio, e qualche audizione di polizia per individuare gli “scafisti”, scelti spesso a caso nel mucchio dei migranti, un respingimento immediato, con riconoscimenti che non comportano identificazione individuale da parte dei consoli e dunque assumono i caratteri di un rimpatrio forzato collettivo, vietato dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, e dal Regolamento Frontiere Schengen n. 562 del 2006, che impongono formalità assai precise e diritti di difesa effettivi per tutti coloro che sono sottoposti alle procedure di respingimento con accompagnamento forzato.
Siamo davvero curiosi di vedere adesso quale trattamento sarà riservato ai superstiti di questa ultima strage quando non saranno più ritenuti utili per le indagini di polizia, appena dopo che si saranno individuati gli immancabili scafisti. C’è da aspettarsi anche per loro un periodo di detenzione in un centro di accoglienza trasformato in centro di identificazione ed espulsione e quindi la loro riammissione nel paese di origine. E mai che una indagine penale si rivolga ai casi di omissione di soccorso o alle pratiche di allontanamento forzato, oppure agli abusi nei centri di detenzione informale, creati per periodi determinati, in modo da fare scomparire i migranti subito dopo lo sbarco, centri inaccessibili pure per quelle organizzazioni ( OIM, ACNUR, Save The Children) che collaborano con il ministero dell’interno nell’ambito del progetto Praesidium.
La tensostruttura di Porto Empedocle, un capannone all'interno della zona portuale, off-limits per tutti, compresi gli avvocati, che dallo scorso anno viene utilizzato come centro di detenzione di migranti in transito provenienti da Lampedusa. Il centro di prima accoglienza di Pozzallo,in provincia di Ragusa, altro capannone all'interno del porto, continua a funzionare come centro di identificazione ed espulsione temporaneo, ma non ne ha lo status e non sono previste convalide da parte dei magistrati o attività di difesa. Ed altre strutture provvisorie di detenzione sono state aperte, e poi chiuse, nelle scorse settimane a Porto Palo di Capo Passero ed a Licata. Ci si avvale dello status di zona militare dei porti per isolare i migranti ed impedire loro per giorni qualsiasi possibilità di comunicazione con l’esterno. E poi il console tunisino, o un suo delegato, come quello egiziano a Catania, effettua riconoscimenti sommari prima dell’imbarco dall’aeroporto di Palermo verso Tunisi. Magari di quelle stesse persone che sono state salvate in mare pochi giorni prima, scampando ad una morte certa.
Ma stiano pur sicuri coloro che cercano di contrastare in questo modo la cd. immigrazione clandestina. Ci riproveranno e ci riproveranno ancora, anche a costo della vita, come dimostrano le testimonianze di quelli che sono riusciti ad arrivare ed a rimanere in Italia dopo avere subito respingimenti collettivi illegali. Anche in questa ultima tragedia avvenuta davanti all'isolotto di Lampione è rimasta coinvolta una donna tunisina che lo scorso anno era già arrivata a Lampedusa, ed era stata poi vittima di un respingimento collettivo, dopo essere stata deportata addirittura in Sardegna. Probabilmente una delle tante persone imbarcate sulle navi o sugli aerei prigione che il ministro Maroni usava lo scorso anno per rimpatriare i tunisini in contrasto con le norme del Trattato Schengen sui respingimenti in frontiera e con le garanzie costituzionali previste anche in favore dei migranti irregolari.
E’ ormai improrogabile una svolta chiara in politica estera,senza delegare i controlli delle frontiere a stati che non applicano effettivamente, come il Marocco e la Tunisia, o non vi hanno neppure aderito,come la Libia la Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati. Non dovranno più concludersi accordi bilaterali per sostenere finanziariamente e tecnicamente la Libia, o altri paesi di transito, che non garantiscono con l’operato dei loro consoli il rispetto dei diritti umani nel “controllo dei flussi di immigrazione clandestina”. E la stessa richiesta si può estendere agli accordi di riammissione collettiva tra Italia ed Egitto o alle intese sulla riammissione “con affido ai comandanti delle navi traghetto” stipulate nel 1999 tra Italia e Grecia, per citare solo alcuni dei casi più eclatanti di accordi internazionali che comportano ancora oggi gravi violazioni dei diritti fondamentali della persona. E spesso anche un costo assai elevato in termini di vite umane. Sarebbe tempo che la magistratura italiana se ne accorgesse, piuttosto che andare solo e sempre alla ricerca dello scafista di turno da gettare in pasto all’opinione pubblica. Anche perché, quando si trovano avvocati di fiducia che esercitano sino in fondo i diritti di difesa, alla fine dei processi, per questi “scafisti” per caso, alcuni dei quali magari minorenni, mancano le prove di un loro effettivo coinvolgimento e rimane soltanto la prospettiva dell’ennesima espulsione.
 

Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo