martedì 10 giugno 2014

“Shufna el mut” - abbiamo visto la morte

E cerchiamo un posto dove ricominciare...

La situazione dei migranti a Catania, un report di Chiara Denaro
In diversi momenti del giorno la stazione di Catania è piena di intere famiglie siriane, e ciò che più colpisce sono i bambini. A pochi metri di distanza, sullo stesso prato, altri bambini, egiziani, minori non accompagnati, soli. Hanno dai 9 ai 14 anni, ma a sentirli parlare sono ometti. Timidi. Di poche parole. Win biddek trouah? Dove vuoi andare? “Inchallah ala Milanu” rispondono improvvisando una voce da adulti.
Qualche altro metro più in là, migranti del corno d’Africa, somali o eritrei, altre donne, altri neonati, tutti con indosso i vestiti dello sbarco e il sale ancora addosso, oppure ciabatte e tuta rossa e blu.
Attendono i treni, la fuga, una via d’uscita. I minori sognano Milano, gli eritrei Roma o la Germania, i siriani Svezia, Norvegia, Olanda.
Hanno tutti passato il mare, dall’Egitto o dalla Libia e raccontano drammi distinti ma profondamente simili.
“Shufna el mut”, è la frase sulle labbra di tutti, “abbiamo visto la morte”.
Raccontano di barche che si sono spezzate in due, altre cui si è rotto il motore, altre speronate da navi più grandi, distrutte e affondate.
Ancora barche, arrestate in alto mare, da forze militari libiche, ricondotte a riva; passeggeri derubati e carcerati. “Siamo partiti due volte”, raccontano Nessrine, Mohammad, Inas e Ayman. “La prima volta, mentre eravamo in mezzo al mare, si è avvicinata una barca libica, e uomini vestiti da militari, con lunghi coltelli ci hanno derubato d’ogni cosa: soldi, telefoni, in qualche caso anche pantaloni e scarpe. Poi ci hanno riportati a riva e in prigione. Lì siamo rimasti una settimana, prima che ci venissero a riprendere per ritentare il viaggio”.
Ed ancora altre barche, come quella di Yahya e sua moglie Leyla, che chiamano SOS e lo ricevono dopo tre giorni di attesa. Unica colpa? Trovarsi al posto sbagliato. Essere incappati nelle “coordinate dell’inazione”, oggetto di disputa tra Italia e Malta, da oltre un decennio.
Mohammed, Maysun e i loro 3 bambini, provenienti dall’Egitto, raccontano di 14 giorni in mare: “pensavamo di morire, è un miracolo se siamo salvi”.

L’accoglienza a Catania è completamente volontaria.
Singole persone con un’energia inesauribile fanno ben più di quanto è in loro potere da mesi e mesi.
Accompagnano a comprare acqua, cibo, pannolini, schede telefoniche, vestiti e scarpe a chi ne arriva sprovvisto.
Il 22 maggio un signore era arrivato in mutande, insieme a un gruppo di scalzi. Scarpe e vestiti persi in Libia, con dentro il ricavo della vendita di tutto ciò che possedeva: casa, auto, negozio. Ogni cosa.
Il 23 maggio, su una stessa barca, c’erano una bimba di 14 giorni e una signora di 72 anni: “ho lasciato la Siria dopo la morte di mio marito e dei miei 3 figli” dice Maryem, “sono andata in Egitto, cercando una vita tranquilla. Sono rimasta lì un anno prima di essere arrestata e imprigionata. Uscita di lì ho deciso di partire, poiché non ho nulla da perdere. Non credo di avere ancora molto tempo davanti a me, e quello che mi resta vorrei viverlo serena”.
Si tratta di un passaggio quotidiano, di cui nessuna storia può restituire la portata. Comincia la mattina presto: prima 3, poi 6, poi 2, poi 5, poi 4 e improvvisamente si è in 50.
Il 7 maggio un treno è partito con a bordo circa 60 persone di cui almeno 20 donne e 40 bambini. Ci si saluta tutti, ci si commuove, si fanno i migliori auguri per una vita serena e si cerca un posto dove riposare. Non c’è tempo per bere un caffè che ne arrivano altri. Entum suriin? Siete siriani? E si ricomincia. Altri 30. Così accade da circa un anno.

I tre quarti di loro sono donne, giovani, e bambini sin troppo piccoli. Molti neonati, dai 14 giorni ai 3 mesi, 5 mesi, 8 mesi, con fratellini di meno di 10 anni.
Mangiano veloci sul prato, e si raccontano storie su storie, vissuti di viaggio. Nei loro discorsi c’è la Siria, lasciata quasi un anno prima, Homs, Dimashq, Haleb e tante altre città sconosciute agli occidentali, ugualmente distrutte. Ognuno ripercorre la sua avventura, attraverso la Giordania, l’Egitto e la Libia fino al “qareb el mut”, la barca della morte, con 420, 470, fino alle 505 persone a bordo sbarcate il 6 maggio.
Onde troppo forti che fanno cadere uno, che si aggrappa al vicino, che fa lo stesso: tre morti improvvisi. Nessuno torna a prenderli. Gli altri 400 restano in barca e proseguono, con la morte bloccata in gola, che toglie il respiro.
Poi le navi militari, si sale lentamente, ci si siede, in salvo. Si mangia un uovo sodo o un piatto di pasta e si beve una bottiglietta d’acqua in 3 o 4 persone.
Poi lo sbarco, le foto alla discesa, il centro di accoglienza, e la nuova fuga verso la stazione. Si scappa di nuovo, nella paura.

Trafficanti aspettano già fuori dai centri.
Pozzallo – Catania, 500 euro a famiglia, Siracusa – Catania, 90 euro a testa, Augusta – Catania, 100 euro. C’è chi prende 50 euro per ogni migrante che lascia uscire dal centro. Altri ne prendono 70, per aiutare i migranti a fare i biglietti alla macchinetta, con un guadagno di 60 euro su ognuno. Un trafficante a Catania ha chiesto 500 euro per fare un biglietto Catania – Milano che ne costa circa 100, o la metà se si viaggia in famiglia.

Non tutti però riescono a fuggire. Secondo alcune testimonianze raccolte lo scorso 6 maggio circa 200 siriani, su tre 3 autobus, sarebbero stati prelevati direttamente al porto e imbarcati su un aereo per Napoli. In piena notte nel centro sarebbe entrata la Polizia, con l’intento di prendere le impronte. Voci grosse, urla, minacce e percosse.

Ad oggi dei profughi siriani non è chiaro il destino. Da un lato si chiudono gli occhi, permettendo il ricongiungimento con fratelli, sorelle, genitori, zii e cugini già arrivati al Nord Europa; dall’altro li si blocca in luoghi privi di status giuridico, da cui non si può uscire, dove si decide spontaneamente di protestare col digiuno, per evitare di dover lasciare le impronte in Italia.
Difficile scorgere in Sicilia una traccia di pianificazione o di programmazione dell’accoglienza, né di una scelta dichiarata di facilitare il transito, supportato dalla predisposizione di interventi adeguati. Le azioni immaginate dai governi sembrano più orientate verso un’esternalizzazione dell’asilo in Libia ed Egitto che non verso l’apertura di corridoi umanitari.

A fare la differenza sono per il momento ragazze e ragazzi, che spontaneamente decidono di contribuire alla fornitura di un’assistenza di bassa soglia a queste persone che necessitano di ogni cosa.

Ieri sera, il binario 3 di Villa San Giovanni era pieno di musica e colori. Finalmente i bambini visti poche ore prima a Catania avevano l’opportunità di esserlo, giocando, ridendo, e provando a rubacchiare il naso al Clown dell’associazione. Poco dopo si sarebbero finalmente addormentati, nonostante il viaggio non fosse ancora finito.
Chiara Denaro