venerdì 12 settembre 2014

Non cessano gli arrivi: in 567 tra Siriani, Palestinesi e Subsahariani al porto di Augusta

Stanno seduti sul ponte di poppa del Pattugliatore Borsini, guardano la macchina dell’accoglienza muoversi lungo la banchina e aspettano il terminare delle manovre di sbarco. Sono 567 i migranti arrivati ieri, 11 settembre, nel porto di Augusta, reduci dal salvataggio messo in atto dalla Marina Militare italiana su tre diverse imbarcazioni: due pescherecci in legno a sud di Lampedusa, per un totale di 470 persone, e un gommone, trasportante 96 persone, soccorso poco più a est da un’altra nave della Marina, dalla quale è poi avvenuto il trasbordo sulla Borsini. Si tratta principalmente di famiglie siriane, tra cui 40 donne, 55 minori e pure un bimbo neonato, e di una minoranza di sub sahariani e nordafricani.
Ricaviamo le notizie dall’ufficio stampa della Marina e da un sottoufficiale che ci spiega che i migranti sarebbero rimasti in mare per due giorni circa prima dell’arrivo dei soccorsi, sebbene sia difficile ricavare notizie certe a riguardo.

Sono proprio i giovani centrafricani a sbarcare per primi, vengono raggruppati in un punto poco distante dalla nave, per poi essere scortati da Polizia, Carabinieri e un rappresentante dell’OIM fino alle tendopoli permanenti, site a circa 200 metri dal luogo dello sbarco. Non ci è possibile avvicinarci, gli agenti stanno tentando di raccogliere testimonianze circa i presunti scafisti. Sotto il gazebo della Croce Rossa, intanto, due ragazzi restano sdraiati, stremati dalle fatiche del viaggio.
È poi il turno dei Siriani: in pochi minuti i bambini si sparpagliano lungo il molo, una piccola corre in lacrime verso il fratellino a cui la Protezione Civile sta consegnando un paio di ciabatte. Lo stringe forte a sé, teme di perderlo. I cooperanti di Praesidium e di Medici Senza Frontiere tentano di tenere il gruppo unito, in attesa che le manovre di sbarco, rese difficoltose dal levarsi di un forte vento misto a zolfo, giungano al termine.

Sono le 16.30 quando raggiungiamo la tendopoli insieme agli ultimi profughi. Le identificazioni sono già in corso e la Protezione Civile sta preparando pacchetti di crackers e succhi di frutta per tutti. Ci avviciniamo ad alcuni Siriani sdraiati sulle brandine di emergenza, sono distrutti ma hanno voglia di raccontare la propria storia e chiedere informazioni sul proprio futuro.
“Sono partito dalla Siria da solo, lì avevo un lavoro e una buona vita, ma poi ho perso tutte le mie proprietà, ogni giorno poteva essere l’ultimo, avevo sempre paura, per questo sono partito” - mi racconta V. – “mi sono imbarcato in Libia, eravamo in 200 su un peschereccio in pessime condizioni, molti stavano male e svenivano sotto il sole, le onde ci travolgevano continuamente”. È contento di essere in Italia, ma ha in progetto di raggiungere la Svezia, dove vivono alcuni suoi amici arrivati in Italia un paio di mesi fa. Vuole capire come sia fatta la Sicilia e dove poter prendere un treno per iniziare il suo nuovo viaggio, non ha intenzione di iniziare qui il suo lungo percorso per il riconoscimento dello status di rifugiato.

Ci addentriamo nel primo tendone dove altre famiglie di Siriani e Palestinesi sostano radunate in piccoli gruppi: tanti occhi arrossati dalla stanchezza e dal vento, mani che accennano a saluti e sorrisi che ci raggiungono quando non troviamo un linguaggio comune per comunicare. I bimbi sembrano avere un energia inesauribile, rincorrendosi e spingendosi fin quasi all’ingresso del secondo tendone, luogo di sosta dei migranti che hanno già effettuato l’identificazione. Qui ci sediamo accanto a tre ragazzi nigeriani, intenti a leggere il volantino con le informazioni legali sulla procedura di richiesta di protezione internazionale, distribuito in lingua inglese dagli operatori di Praesidium. “Sono della città di Kanu, nella zona nord della Nigeria” si presenta C. “nel mio paese ci sono sempre state rivolte ma adesso la situazione è insostenibile e così ho deciso di fuggire. Dalla Nigeria sono andato in Niger, quindi in Mali e poi in Egitto, per arrivare finalmente in Libia dove mi sono imbarcato. Durante il percorso ho conosciuto questi ragazzi che sono adesso accanto a me, e il viaggio ci ha trasformato in grandi amici.” Volano pacche sulle spalle tra i quattro ragazzi che si dividono una brandina: “tu sai dirmi quanto tempo resteremo qui? Dove ci porteranno poi? Potremo telefonare?” incalza M. mostrandoci le foto di suo figlio sul cellulare. “Io ho rischiato la vita con questo viaggio e voglio fermarmi in un posto sicuro. Non mi interessa dove, basta poter vivere e imparerei pure l’italiano”.

Ci interrompe all’improvviso S., un giovane ragazzo palestinese alla ricerca di qualcuno che parli almeno il francese. “Conosco molto bene il francese perchè da Gaza passano molti giornalisti con cui mi mantengo in contatto via internet. In questi anni ho fatto molta fatica a completare i miei studi, da noi è sempre guerra, ma è stata la violenza assurda di questi ultimi mesi a farmi scappare”. Anche M. vorrebbe andare in Svezia, “dove capiscono da dove vieni e da cosa scappi”, e non vede l’ora di essere trasferito in un campo migliore per fare il punto sulla sua situazione. “Sono in viaggio dal 30 agosto. Da Gaza sono passato in Egitto e poi in Tunisia, dove ho camminato per tantissimi chilometri raggiungendo infine la città libica di Zwara, da cui sono partito. In realtà la traversata è stata abbastanza breve; le navi italiane hanno risposto alla nostra richiesta di soccorso quando eravamo in mare da soltanto sei/sette ore”. Tre ragazzi siriani ci invitano a sederci con loro e vogliono mostrarci i loro passaporti: data di partenza da Beirut 28 agosto, poi in aereo verso l’Algeria e da qui a Tunisi, per giungere in Libia:  “In Siria sono rimasti i miei figli, secondo te quando tempo passerà prima che possano raggiungermi?” ci dice L, telefonino con foto alla mano. Di fronte a noi sta seduto un uomo sulla sessantina, capelli e barba bianchi, che d’un tratto ci avvicina il suo cellulare: vediamo foto di lividi, ferite, bruciature, e il suo volto tumefatto in primo piano. Dopo poco se ne va silenziosamente, lasciandoci senza parole, sotto la luce fredda dei primi neon che si accendono nell’accampamento. “Probabilmente non ci rivedremo”, ci saluta C., “ma ricordati e racconta la nostra storia, che tutti devono sapere”.

Lucia Borghi e Beatrice Gornati

Borderline Sicilia Onlus