giovedì 9 luglio 2015

L'interminabile attesa

Finalmente, dopo un anno e tre mesi di interminabile attesa, in questi giorni  alcuni ospiti dei centri SPRAR della piana del Belice, gestiti dalla cooperativa Quadrifoglio, stanno procedendo con il fatidico colloquio davanti alla subCommissione territoriale presso la Prefettura di Agrigento, che deciderà di accogliere o respingere la loro richiesta di asilo.
Nonostante le audizioni fossero state fissate già dalle 9 di mattina, vari ritardi strutturali hanno fatto attendere alcuni ragazzi diverse ore prima di poter sostenere il colloquio. Ad oggi sono circa 1500 sono le domande di asilo che la Commissione agrigentina deve esaminare: dalla sua istituzione, lo scorso maggio, ne ha vagliate appena 60. Se al numero di domande arretrate si aggiungono ulteriori istanze di richiedenti asilo recentemente sbarcati, nonché e le pratiche di soggetti “priorizzati”, vale a dire di persone reputate particolarmente vulnerabili, l’attesa dei primi richiedenti potrebbe prolungarsi per lungo tempo. Come far fronte ad una situazione tale di incertezza e di sofferenza? Alcuni trovano il modo di scaricare le tensioni e ritrovare un certo equilibrio mentale e psicologico attraverso, per esempio, la musica, come nel caso di un ragazzo ghanese. Trasformare la propria frustrazione in brani musicali ne aiuta l’elaborazione o, quantomeno, la sana gestione. Ma chi non possiede questo dono artistico, “non ha nemmeno più voglia di sorridere”, ma si lascia risucchiare dalla frustrazione e dall’insopportabile sentimento di impotenza. Loro, almeno, una data ce l’hanno: altri, troppi, ancora aspettano di sapere il tanto atteso giorno dell’audizione, sul quale si aggrapperanno come se fosse la loro unica ragione di vita, senza sapere che quel giorno per molti sarà solo l’inizio di un lungo iter giudiziario.
Intanto, per le strade, ai bar, nei ristoranti, si sente parlare della questione immigrazione. Specialmente i turisti indagano su questo fenomeno tanto mediatizzato e chiedono risposte agli autoctoni. Nel caso specifico a cui mi riferisco, la conversazione tra un “forestiero” e un “girgentano” è sfociata in una vera e propria replica di luoghi comuni, stereotipi e false informazioni, illuminando tutti i paradossi degli stessi. Infatti, secondo l’autoctono in questione (che ha dichiarato di “non essere razzista, ma…”) coloro che hanno un affitto da pagare, in qualche modo sono obbligati a lavorare e guadagnarsi da vivere. Gli altri, quelli che stanno nei centri di accoglienza, in fin dei conti se la passano bene in Italia, dove lo stato li paga “70 euro al giorno, fino a 110 euro per i minori” e che quindi li esonera dalla necessità di lavorare e permette loro di girovagare tutto il giorno per la città senza meta. Non è mancato l’accenno ai “loro” giri loschi (anche se non si è ben capito chi esattamente fosse inteso con “loro”), alla malavita, allo spaccio, alle aggressioni, concludendo ad effetto con la domanda quasi sufficiente: “lei prende ancora la metropolitana a Milano?”. Sì, la prendo, anche a mezzanotte, da sola, senza problemi. Un discorso dell’(in)sicurezza, insomma, che ormai siamo troppo abituati a sentire in televisione e in politica. Ma cosa sono queste forme di potere se non due facce della stessa medaglia? Ancora l’Italia non si è forse ripresa dallo shock di sapere che lo stupratore della giovane adolescente a Roma è un militare italiano: non erano mica gli immigrati quelli violenti? La domanda, comunque, sorge spontanea: a che punto esatto del processo di costruzione del “noi e loro”, dei “buoni e cattivi”, dei “ricchi e poveri” la nazionalità ha preso il sopravvento tale da risultare più interessante, più grave, più giudicata del reato stesso?
D’altronde, questo pare essere il grande dilemma del nostro secolo. Inquadrare ogni singolo individuo prima di tutto geograficamente, forse ancor prima che cromaticamente, per determinarne il valore e la presunta minaccia. Categorizzare per forza i flussi migratori, stabilire chi emigra per motivi economici, chi per ricongiungimenti famigliari, chi per fuggire per salvarsi la pelle, e via dicendo. A volte mi domando come girerebbe il mondo se si smettesse di cercare di inquadrare le cose per forza, e si accettasse che determinati fenomeni, concetti, ideali, teorie, ecc. sono fluidi, permeabili, incontrollabili. Le migrazioni sono come l’acqua che scorre. Attraverso apparecchiature e ingegni studiati, è possibile limitarne il flusso, ma mai bloccarlo del tutto. L’acqua troverà sempre il modo di superare le barriere, passando attraverso piccoli spiragli o scavandosi altri varchi con pazienza e costanza. Lo stesso vale per le migrazioni. Si possono erigere muri, militarizzare le frontiere, approvarne leggi restrittive: ma non si può impedire all’essere umano di muoversi


Caterina Bottinelli
Borderline Sicilia