giovedì 4 febbraio 2016

Il centro Sprar di Gela dove la parola d’ordine è futuro

La scorsa settimana abbiamo visitato il centro SPRAR del comune di Gela, gestito dalla cooperativa San Francesco che fa parte del consorzio Sol Calatino.
Fuori da uno degli appartamenti incontriamo un ospite e l’operatore di turno. Chiedo se ci siano altri ospiti ma mi viene risposto che alcuni dormono ed altri sono al lavoro. Dopo pochi minuti scende dal piano superiore un altro ospite con evidenti difficoltà di deambulazione, perché, ci spiegano, è ipovedente a causa di una grave patologia. A detta dell’operatore, l’intero staff starebbe facendo il possibile per assicurare le cure di cui necessita ma sembrerebbe molto complicato farlo in assenza di strutture specializzate. 

Ciò che è certo è che per questa persona vivere al secondo piano di un edificio sprovvisto di ascensore, rappresenta un grave ostacolo alla sua autonomia ed un ulteriore impedimento al suo handicap.
Prima di rispondere alle nostre domande l’operatore di turno chiama un suo referente, il quale dà immediata disponibilità ad incontrarci nel suo ufficio per illustrarci la gestione del progetto di accoglienza diffusa in 5 diversi appartamenti, tutti situati nel centro di Gela, i cui beneficiari sarebbero 50 in totale. 
Il responsabile racconta che l’appartamento appena visitato fino a poco tempo fa era abitato da 25 persone. Recentemente, per rimediare alla condizione di sovraffollamento segnalata dal Servizio Centrale nel corso del suo monitoraggio, è stato predisposto il trasferimento di 7 beneficiari in un altro appartamento, preso appositamente in affitto.
Il referente parla poi delle attività di integrazione ed inclusione sociale raccontando che la cooperativa San Francesco, per poter lavorare d’intesa con il territorio, ha siglato dei protocolli con diversi enti operanti sul territorio. Tra questi vi sono l’ente di formazione permanente EDA (per la frequenza dei corsi di L2 e il conseguimento della licenza di terza media) e il Centro Giovani Macchitella , con il quale sono state organizzate partite di calcio, un campionato dilettantistico in cui hanno partecipato alcuni degli ospiti SPRAR e 2 incontri pubblici di sensibilizzazione, in occasione della Giornata del rifugiato (a queste giornate hanno preso parte anche altre realtà associative del territorio).
Riferisce ancora che, a partire dell’avvio di questo progetto SPRAR, che risale all’aprile 2014, sono stati attivati 20 tirocini formativi e che il corso di italiano, tenuto da una docente abilitata all’insegnamento del livello L2, è assicurato tutti i giorni feriali della settimana, dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18. Quando chiediamo notizie sulla frequenza delle lezioni, è la stessa insegnante ad ammettere che, purtroppo, il numero di coloro che frequentano è molto basso: molti “disertano” le lezioni perché scoraggiati dal protrarsi della loro permanenza all’interno del progetto in attesa di documenti, altri perché provano a fare "altro". Si tratta ovviamente di lavoro nero, sottopagato, anche se secondo i nostri interlocutori è da escludere che a Gela esista un vero e proprio fenomeno di caporalato e sarebbero direttamente i proprietari agricoli e gli artigiani locali a recarsi ogni mattina in un punto della città per “prelevare “ la manodopera di cui hanno bisogno per la giornata.
La questione del lavoro irregolare coinvolge gli ospiti di molti centri  e risulta essere quasi fisiologica in un sistema di accoglienza che si protrae per lungo tempo, costituendo una criticità difficile da risolvere. I gestori dei progetti di accoglienza che venuti al corrente vorrebbero fare qualcosa per contrastare questo fenomeno si ritrovano senza mezzi a disposizione perché non hanno alcun modo di offrire ai beneficiari un’alternativa che rappresenti una fonte di reddito ed un’attività lavorativa.
Chiusa la parentesi del lavoro nero, riceviamo informazioni sulla composizione dell’equipe costituita da: 2 responsabili amministrativi, 13 operatori (di cui tre operatori dell’accoglienza e 3 generici), tre professionisti che assicurano il servizio di assistenza sociale e assistenza psicologica e legale, un consulente alle politiche attive che si occupa dell’orientamento al lavoro e un  mediatore linguistico-culturale. Un’equipe senz’altro numerosa, a fronte della presenza di un solo mediatore, ex ospite del progetto che sebbene parli francese, inglese, mandinga, wolof, inglese, le cui conoscenze linguistiche sono quindi limitate nell’interazione con gli ospiti di origine asiatica presenti nel progetto.
A conclusione dell’incontro, chiediamo di potere parlare con alcuni ospiti e veniamo accompagnati in un altro appartamento, quello considerato “il migliore”. L’abitazione appare molto decorosa, spaziosa e pulita. Facciamo conoscenza con 4 giovani maliani, che sostano nella loro camera, adagiati sul letto con aria annoiata e abbattuta. Con tono scoraggiato ci raccontano che l’unico grande problema che li affligge è l’attesa dei documenti. Aggiungono che si sentono sospesi, senza una loro vita. Si impegnano a frequentare il corso di italiano ma passare intere giornate senza fare niente, è molto difficile, non ce la fanno più. Sono tutti in Italia da due anni e, dopo aver atteso per più di un anno la risposta della Commissione territoriale, hanno presentato ricorso contro un diniego della loro domanda di asilo. 
Nella cucina dell'appartamento e incontriamo altri giovani del progetto. Di fronte ai fornelli diamo per scontato che siano lì per cucinare e invece scopriamo che il progetto prevede un servizio di catering ( fornito da un ristorante-pizzeria del luogo) e che gli ospiti possono usare la cucina solo per scaldare e condire, a loro piacimento, il cibo pronto che viene portato per pranzo e cena. Sono gli stessi ospiti a raccontarci di avere più volte protestato perché vorrebbero poter cucinare i pasti dato che non gradiscono quelli forniti esternamente. Si mostrano molto arrabbiati perché non trovano giusto e non capiscono le ragioni di questa imposizione: sostengono che per potere mangiare comprano del cibo con i soldi del loro pocket money, mentre quello del catering viene sprecato.
Tutti gli ospiti si lamentano di ricevere solo 40 euro mensili di pocket money, ritenendoli pochi dato che devono usarli per comprare il cibo e vestiti e considerato che in altri progetti la cifra corrisposta ad ospite arriva anche al doppio. Il referente ci conferma l’ammontare mensile, sottolineando che la somma di 1,50 euro giornalieri è quella prevista nella convenzione.  Sempre in tema di soldi i ragazzi ci informano che i tirocini formativi non verrebbero pagati, dato che alcuni ospiti non hanno mai ricevuto i soldi dei tirocini conclusi diversi mesi fa. 
Tutti loro appaiono ben vestiti, ma quando glielo facciamo notare, ribadiscono che sono abiti comprati con i loro soldi, di non ricevere indumenti dalla scorsa estate e precisano che chi è entrato nel progetto lo scorso settembre non avrebbe mai ricevuto alcun indumento, neanche al momento dell'arrivo. 
A questo punto, veniamo autorizzati ad entrare anche nel primo appartamento.  Salendo le scale e ci ritroviamo in una struttura simile ad un ostello: un ampio spazio comune, una grande cucina e un unico grande locale per i servizi igienici, in cui ci sono 5 docce e 5 wc separati. Nel locale cucina trovo diversi ragazzi ai fornelli, intenti a cucinare. In realtà stanno solo soffriggendo delle cipolle per poi far saltare il riso pronto, insieme ad un'altra pietanza a base di carne e pomodoro, appena consegnati dal servizio catering.
Qui l’atmosfera è più rilassata, ma anche questi giovani si dicono frustrati e scoraggiati dall’interminabile attesa dei documenti. “Non è vita mangiare e dormire, passiamo il nostro tempo a pensare ai documenti che non arrivano e alla nostra situazione che non cambia”. Ci dicono di sapere parlare in italiano, ma la conversazione continua in inglese e il nostro incontro si conclude con uno di loro che dice “we have to create our futuro”, e “futuro” è l’unica parola che risuona, forte, in italiano.
Giovanna Vaccaro
Borderline Sicila Onlus