venerdì 8 aprile 2016

Vi accogliamo a braccia aperte

Foto di Alberto Biondo
La prima sensazione che abbiamo provato arrivando al Cas “San Marco” di Licata è stata di imbarazzo, perché fuori dal centro proprio di fronte l'entrata del palazzo che ospita 68 ragazzi c'è una statua di Gesù con le braccia aperte che sembra aspettare proprio qualcuno per consolarlo. Al sol pensare che tutti i giorni questi ragazzi affacciandosi alla finestra vedano questa statua e non hanno nessuna consolazione “piange il cuore", come ci ha detto una signora anziana ferma davanti la statua.

Il centro è ospitato nella periferica di Licata, paese in provincia di Agrigento e si trova proprio sulla strada statale SS 115 fuori dal centro storico, situazione ideale per porre i ragazzi isolati e invisibili alla popolazione che infatti non ha alcun contatto con i migranti.

Veniamo accolti dal mediatore e dall'assistente sociale della struttura, a seguito di un’autorizzazione rilasciataci dalla prefettura di Agrigento. Il palazzo è grande, di tre piani nei quali i migranti sono suddivisi per nazionalità. Al piano terra si trovano 19 Pakistani, al primo piano 15 migranti  provenienti dal Bangladesh e 8 Afganistan (arrivati a dicembre e che soltanto da pochi giorni hanno perfezionato la richiesta di asilo), mentre al secondo piano la zona è africana, con la prevalenza di Gambiani e Nigeriani e la presenza di un caso Dublino di nazionalità maliana (presente in struttura da circa un anno).

A dispetto del buonismo che pervade la loro accoglienza e delle braccia aperte della statua, gli ospiti versano in uno palese stato depressivo visto che da due anni la quasi totalità dei migranti presenti in struttura è bloccata a Licata, con l'aggravante che tutti hanno avuto il diniego da parte della commissione territoriale, tranne due Afgani che adesso si trovano altrove.

La commissione territoriale di Agrigento continua a produrre percentuali di dinieghi con picchi vicino al 100%, come se l’attività delle commissioni fossero in gara per accontentare i politici che pretendono “risposte” escludenti. E i migranti, tanti padri di famiglia, da marzo 2014 sono chiusi in una palazzina nella provincia di Agrigento, a tormentarsi sul perché della situazione nella quale si trovano.

L'unico loro punto di riferimento ( e non per tutti) è il mediatore gambiano che riesce a fare da tramite con l'ente gestore, dato che gli altri operatori che lavorano nel centro non conoscano alcuna lingua straniera! Il mediatore è in Italia da cinque anni e vive anche lui nel centro.

Nel corso dei due anni di attività della struttura non si sarebbero rilevate grosse difficoltà, sia perché l'età media degli ospiti è alta rispetto ad altri centri, che per il tipo di organizzazione interna: una specie di autogestione "accompagnata", che vede ad ogni piano una cucina indipendente dove gli ospiti cucinano autonomamente.

Fa specie verificare come non ci sia interazione tra i diversi piani dell’edificio: una specie di ghetto nel ghetto! Lontani dal paese, isolati anche fra di loro. Questa impostazione ha giovato nel tempo all’ente gestore dato che le lamentele e le richieste si sono sempre limitate all'abbigliamento, all'assistenza sanitaria e ovviamente ai documenti.

Secondo l'assistente sociale tutti i servizi sarebbero ottimi, tranne l'igiene e l'ordine, a quanto sembra problematici da mantenere. Gli ospiti, dal canto loro, ci hanno rappressentato alcune difficoltà tra le quali quelle legate ai ritardi nell’ottenimento dei documenti e quindi all'impossibilità di trovare un lavoro degno di questo nome. C’è chi ci racconta di essere stato sentito dalla Commissione territoriale (quella di Enna per smaltire i numeri alti di Agrigento) sei mesi fa, SEI MESI, e di non avere ancora ricevuto alcuna risposta in merito alla propria richiesta di protezione internazionale.

L’altro problema lamentato è sul campo sanitario. A quanto sembra i medici di Licata sarebbero impreparati ad approcciare culture diverse dalla nostra, impreparazione alla quale si sommano problemi di mediazione linguistica: i migranti non comprendono le scelte e prescrizioni dei medici anche perché nessuno spiega loro le prassi della burocrazia italiana. Così un signore del Bangladesh non comprende perché a distanza di un anno ancora non viene sottoposto ad operazione chirurgica come gli era stato prescritto, e un ragazzo nigeriano non si spiega l’attesa di sei mesi per curare una carie che lo tormenta.

Ma anche sul servizio di guardaroba tutti i migranti hanno da ridire. A loro dire, e contrariamente a quanto sostenuto dall’assistente sociale, mancherebbero i vestiti: "quelli che vedi li abbiamo comprati noi". Avrebbero ricevuto abiti soltanto al loro arrivo in struttura, a quanto pare roba usata, anche femminile. Per dimostrarlo ci mostrano alcuni giacconi, effettivamente per donna. Anche lenzuola e asciugamani sarebbero stati distribuiti soltanto all'arrivo, da due anni non avrebbero mai avuto un cambio. In effetti quelli che vediamo sono unti e vecchi. Anche questa circostanza è stata smentita dall'assistente sociale, forse con poca convinzione quando le abbiamo fatto notare le condizioni delle lenzuola.

Ci è sembrato inoltre che alcune camere da letto siano troppo anguste, con i letti a castello stipati dentro. Inoltre a detta degli ospiti il wifi (unico mezzo per comunicare con le famiglie o avere uno sguardo su quanto accade fuori dall’edificio-mondo) sarebbe troppo debole per tutte le persone presenti.

L'assistente sociale ha tenuto a precisare che alcune problematiche sono recenti, conseguenza della fine dei fondi della cooperativa, che la prefettura non paga da più di sei mesi. Ci sarebbero ritardi nell’erogazione del pocket money e una riduzione della quantità e qualità della spesa settimanale, che ovviamente alimentano le insoddisfazione esistenti.

Ma ciò che è più evidente, ed è una mancanza cronica in qualunque Cas che abbiamo visitato, è l’assenza di un serio supporto psicologico agli ospiti. Nel corso della nostra visita tanti dei presenti è rimasto a letto; in pochi sono riusciti a manifestare la propria rabbia per la situazione che vivono quotidianamente.

"Sono venuto due anni fa per guadagnare i soldi per curare i miei figli che stavano male, ero padre di 4 bambini e due sono morti perché non avevano i soldi per le cure ed io ho contribuito ad ucciderli visto che non ho mai mandato un soldo perché non sono riuscito ad avere un lavoro, è colpa mia se oggi non ci sono più, e ancora da 4 mesi aspetto il ricorso al diniego". Questo è lo sfogo di un ragazzo gambiano, che presenta visibilmente un disagio psicologico molto forte, e che senza il supporto di uno specialista certamente è destinato ad esplodere.

Solo pochi lavorano nelle campagne limitrofe, per 20 euro al giorno, sfruttati dai contadini che passano davanti la struttura contenti di avere una manodopera a basso costo e senza grosse pretese.

Questa situazione al Cas San Marco di Licata è figlia di una politica criminale, di una politica che oggi spinge la Commissione territoriale di Agrigento a diniegare anche minori non accompagnati, donne in stato di gravidanza. Ma quale criteri vengono usati? Alcuni operatori dei Cas della provincia ci raccontano che il membro dell'Unhcr in Commissione territoriale sarebbe spietato e senza umanità. Borderline Sicilia continuerà a seguire questi casi, di una gravità inaudita e a chiedere spiegazioni ai responsabili delle violazioni e degli abusi.

Non c'è pace per i migranti; neanche i minori si salvano in questa giungla. Alcune comunità chiudono per mancanza di fondi, altre invece aprono, come il nuovo centro per minori non accompagnati sorto al Villaggio Mosè (Agrigento) dove ormai insistono ben cinque strutture dedicate. Altre ancora riaprono dopo denunce e controlli. Situazioni gravi ed incomprensibili che si ripetono in tutti i territori.

Ad Agrigento non ci sono più professionisti disponibili a ricoprire l’ufficio di tutore per una serie di incomprensioni tra cittadini volontari ed istituzioni, con la conseguenza che le tutele  vengono affidate agli operatori dei centri, i quali a loro volta nominano gli avvocati convenzionati con le strutture dia accoglienza, con conflitti di interessi altissimi e una violazione dei diritti spaventosa.  Si sta riproponendo un sistema che pregiudica la tutela del minore e che sembrava da anni sorpassato, e che alimenta glia allontanamenti dalle comunità.

Anche i nuovi arrivati subiscono le difficoltà di un sistema fallimentare. Nell’hotspot di Lampedusa si contano più di 300 persone già da settimane che non vengono trasferite anche per le cattive condizioni del mare. Villa Sikania, che dovrebbe operare come hub per favorire i ricollocamenti (che non avvengono perché in Sicilia non arrivano da tempo né siriani né eritrei, gli unici che possono accedere alla procedura), ad oggi ha al suo interno più di 200 persone collocate “temporaneamente” per fronteggiare la perenne emergenza, destinati a permanere per settimane prima di venire trasferiti nei Cas di tutta Italia.

Situazioni di non accoglienza che si replicano perché ciò che interessa non è certo la persona, ma l'odore dei soldi. Eppure basterebbe poco, pochissimo, come ha detto un nostro nuovo amico che ci ha accompagnati fino alla statua del Cristo a braccia aperte e che ci ha salutati con queste parole: "Dopo quasi due anni forse riuscirò a dormire perché è la prima volta da quando sono qui che viene una persona da fuori, una persona che ci chiede come stiamo e come viviamo; ci hanno chiuso qui dentro e la gente che raramente passa da questa strada a malapena ci saluta e ci guardano come fossimo tanti animali in gabbia".

Alberto Biondo

Borderline Sicilia Onlus