mercoledì 16 settembre 2015

Hot-Spot. Centri di primo soccorso ed accoglienza o centri di detenzione?

Da Tutmonda, di Fulvio Vassallo Paleologo
Una interrogazione ed una risposta che non convince.
La recente risposta del Commissario Europeo all’immigrazione Avramopoulos ad una interrogazione di Barbara Spinelli sulle presunte violenze verificatesi all’interno del Centro di primo soccorso ed accoglienza (CPSA) di Pozzallo, nel mese di aprile, durante le procedure di identificazione di alcuni gruppi familiari, lascia aperti molti interrogativi. Interrogativi che vanno letti anche alla luce della persistente chiusura della struttura, nella quale vengono negati ingressi di associazioni, già autorizzate dal Ministero dell’interno, proprio perché si starebbero svolgendo “procedure di identificazione” di persone trattenute al suo interno.

Non sembra del resto maggiormente accessibile il CPSA di Contrada Imbriacola a Lampedusa, nel quale da tempo si registrano trattenimenti prolungati di minori e potenziali richiedenti asilo in assenza di un qualsiasi provvedimento dell’autorità giudiziaria. Casi che sono stati recentemente sanzionati da una condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
Il primo settembre la CEDU ha infatti condannato l’Italia per la detenzione “illegale” di tre migranti tunisini avvenuta nel settembre del 2011 nel Centro di prima accoglienza di Lampedusa e poi su due navi traghetto a Palermo. Per la Corte di Strasburgo, la loro detenzione da parte delle autorità italiane è stata «irregolare», «ha leso la loro dignità» e ha violato diversi articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ( 3, 5 e 13).
La detenzione amministrativa realizzata all’interno di un centro di primo soccorso ed accoglienza, scrive ancora la Corte, era «priva di base legale», mentre i motivi della reclusione erano rimasti «sconosciuti»ai tre ricorrenti che «non hanno nemmeno potuto contestarli» rivolgendosi a un giudice italiano. La Corte ha infine stabilito che l’Italia ha violato il divieto alle espulsioni collettive di stranieri  (art. 4 Protocollo 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) perché ha rimpatriato in Tunisia i tre migranti senza aver prima fatto un’analisi della situazione specifica di ciascuno di loro.
La sentenza della Corte, sebbene ancora appellabile dal governo italiano, fa leva su una cospicua mole di precedenti giurisprudenziali che sono evidentemente ignoti al Commissario Europeo Avramopoulos ed alla Commissione, ai quali, subito dopo la diffusione di un video che documentava la detenzione amministrativa all’interno del Cpsa di Pozzallo, era stato indirizzato un esposto.
Il Commissario Avramopoulos e la Commissione Europea, senza neppure accertare i fatti, non hanno evidentemente considerato le diverse ragioni addotte dagli esposti presentati: questi, oltre a ribadire le diverse  violenze già documentate in video e testimonianze diffuse in rete, lamentavano il prolungato trattenimento amministrativo, con totale privazione della libertà personale, dei migranti, alcuni dei quali visibilmente minori, appena sbarcati, in una condizione di grande promiscuità, in quelli che, al massimo per 48-72 ore, dovrebbero essere soltanto centri di primo soccorso ed accoglienza, e non Centri di identificazione ed espulsione (CIE), come quelli previsti e disciplinati dall’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione.
Si tratta di questioni cruciali, sia per l’indirizzo, riconfermato dall’Unione Europea nei suoi numerosi vertici, di aprire degli Hot Spot nelle regioni di frontiera, se ne prevedevano ben cinque in Sicilia, dove identificare i migranti subito dopo lo sbarco, anche con il prelievo delle impronte digitali, che per le recenti dichiarazioni dei leader europei che annunciano l’intenzione di rafforzare le procedure di identificazione, al fine di distinguere e separare i cd. migranti economici, per i quali attivare immediatamente le procedure di respingimento, dandone avviso alle relative rappresentanze consolari, dai profughi o potenziali richiedenti asilo, quasi come se l’Italia avesse già adottato una lista di “paesi terzi sicuri”, verso i quali allontanare senza formalità i migranti “irregolari” appena dopo lo sbarco. Una forzatura politica priva di basi legali.
In una riunione del governo italiano, nel mese di maggio, si era approvato uno schema di decreto legislativo che prevedeva il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo, in un numero di casi maggiore di quanto non si verifichi oggi, ma quel provvedimento non è ancora andato a regime, ed appare peraltro incongruente con la scelta europea di aprire gli Hot Spot. Si tratta dunque di una normativa non ancora applicabile, e le regole di trattenimento delle persone appena sbarcate rimangono affidate alla più totale discrezionalità delle forze di polizia, a fronte della evidente impossibilità di adottare misure di accoglienza/detenzione a decine di migliaia di persone alle quali non si riesce a garantire neppure un tetto ed una accoglienza dignitosa, come dimostra lo scandalo della tendopoli al PalaNebiolo di Messina, neppure nel caso di donne, minori  non accompagnati e vittime di tortura, che rappresentano oltre un terzo di tutti i migranti che vengono sbarcati nei porti italiani.
Di fronte a questa ulteriore involuzione del sistema italiano di prima accoglienza, una responsabilità sempre più grande incomberà sulle associazioni e su tutti coloro che, operando anche all’interno di strutture e servizi pubblici, saranno coinvolti nelle attività di prima accoglienza. In tutte le città portuali di arrivo e nei centri dove saranno istituiti HOT SPOTS occorrerà vigilanza e capacità di pronto intervento, attraverso reti indipendenti di operatori sociali, esperti legali, giornalisti e medici.
Ancora il 17 luglio scorso giungevano a Lampedusa numerose cittadine nigeriane, potenziali vittime di tratta, alle quali è stato notificato un provvedimento di respingimento differito adottato dalla Questura di Agrigento e che, dopo alcuni giorni di trattenimento nel CPSA di Contrada Inbriacola, sono state trasferite nel CIE di Ponte Galeria, a Roma, ai fini del rimpatrio. Soltanto un forte impegno della società civile ha bloccato il rimpatrio immediato, ottenendo la liberazione delle prime quattro ragazze, mentre si stanno preparando i ricorsi per ottenere la liberazione di quelle altre per le quali la Commissione territoriale di Roma ha respinto la richiesta di protezione internazionale. Nel loro caso, oltre al trattenimento arbitrario a Lampedusa si è aggiunto l’internamento in un centro di identificazione ed espulsione. Un caso sul quale riflettere per comprendere quale potrebbe essere in futuro la valenza espulsiva, senza alcuna possibilità di un ricorso effettivo o di fare valere una richiesta di asilo, dei nuovi Hot Spot che il governo italiano, su spinta delle autorità europee, dovrebbe attivare entro l’anno.
Come già ribadito dall’ Associazione Studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) nel comunicato del 18 dicembre 2013, le detenzioni di tal fatta costituiscono “trattamenti inumani e degradanti, vietati dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e costituenti ipotesi di reato che, al di là della qualificazione giuridica, sono emblematici delle condizioni di vita dei Centri di detenzione amministrativa: un motivo in più per chiederne con forza l’immediata chiusura”…… “Non è la prima volta che il CPSA di Lampedusa è al centro delle cronache per le illegalità gravi che ivi si consumano, già nel 2011 – all’epoca delle “primavere arabe” – centinaia di migranti furono trattenuti illegalmente per settimane senza alcun controllo della magistratura e privi di alcuna forma di tutela legale”.
Quanto avviene ancora oggi nei centri di prima accoglienza e soccorso, quando il trattenimento amministrativo si protrae oltre le 96 ore, magari allo scopo di ottenere il prelievo delle impronte digitali, corrisponde ad una eclatante violazione dell’art. 13 della Costituzione italiana e delle norme che regolano in Italia il trattenimento amministrativo.
Disciplina e limiti del trattenimento amministrativo nell’ordinamento italiano.
Con riferimento alla normativa italiana in materia di immigrazione, gli artt. 10, 13 e 14 del D.Lgs. 286/98 (e successive modifiche) prevedono che il cittadino straniero possa essere privato della libertà personale con provvedimento amministrativo, unicamente nei casi in cui venga nei suoi confronti adottato un provvedimento di respingimento alla frontiera (art. 10), ovvero un provvedimento di espulsione (art. 13), ovvero un provvedimento di trattenimento presso un centro di permanenza temporanea e assistenza, oggi Cie, (art. 14). Tale ultimo provvedimento può essere adottato unicamente ai fini dell’esecuzione del provvedimento di allontanamento dal territorio italiano. Tali provvedimenti, inoltre, hanno natura di provvedimenti recettizi; essi acquistano dunque efficacia solo dal momento della loro notifica al destinatario e non possono trovare esecuzione prima di tale notifica. I provvedimenti di trattenimento e di accompagnamento alla frontiera dello straniero devono essere inoltre comunicati al Giudice di Pace entro 48 ore dalla sua adozione, e devono essere convalidati dal Giudice entro le successive 48 ore (artt. 13, co. 5 bis e 14, co. 4, D.Lgs. 286/98), pena la perdita di efficacia.
Proprio con riferimento ai provvedimenti di trattenimento presso i CIE, e più in generale con riferimento alle procedure di accompagnamento forzato alla frontiera, la Corte Costituzionale ha più volte chiarito (si vedano in particolare le sentenze 105/01 e 222/04) trattarsi di provvedimenti limitativi della libertà personale, che come tali devono essere assistiti dalle garanzie di cui all’ art. 13 della Costituzione, e dunque devono essere sottoposti nei tempi indicati da tale norma al vaglio giurisdizionale. L’art. 21, co. 4, del Regolamento di attuazione del D.Lgs. 286/98 (D.P.R. 394/99, come modificato dal D.P.R. 334/04), prevede che “il trattenimento dello straniero può avvenire unicamente presso i centri di permanenza temporanea individuati ai sensi dell’art. 14, comma 1, del test unico, o presso i luoghi di cura in cui lo stesso è ricoverato per urgenti necessità di soccorso sanitario”; l’art. 23, co. 1, del medesimo regolamento aggiunge che “le attività di accoglienza, assistenza e quelle svolte per le esigenze igienico-sanitarie, connesse al soccorso dello straniero possono essere effettuate anche al di fuori dei centri di cui all’articolo 22 per il tempo strettamente necessario all’avvio della stesso ai predetti centro o all’adozione dei provvedimenti occorrenti per l’erogazione di specifiche forme di assistenza di competenza dello Stato”.
Il Centro di Soccorso e Prima Accoglienza deve, come vuole il nome stesso, essere destinato a prestare soccorso alle persone sbarcate dopo operazioni di soccorso, per poi procedere ad un loro veloce trasferimento verso altri centri a seconda delle esigenze e della posizione giuridica dei singoli individui.
Come ribadito dallo stesso Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) in un recente comunicato stampa relativo al CPSA di Lampedusa,  “il centro è stato realizzato per fornire una prima accoglienza ai migranti e richiedenti asilo soccorsi in mare, in attesa del loro rapido trasferimento – entro 48 ore al massimo – verso appositi centri dislocati su tutto il territorio nazionale, dove i loro casi vengano presi in esame. Senza un adeguato sistema di rapido trasferimento dei migranti fuori dall’isola si verificano costantemente situazioni di grave degrado anche in vista di possibili nuovi arrivi via mare.”
Tali disposizioni di fonte regolamentare, dunque, prevedono che la privazione della libertà personale dello straniero nei procedimenti amministrativi relativi al suo allontanamento possa avvenire unicamente presso i CIE, mentre al di fuori di tali centri (e dunque anche nei CPSA) possono svolgersi unicamente attività di accoglienza, assistenza e quelle svolte per esigenze igienico sanitarie, ma non può esservi limitazione della libertà personale; in ogni caso, ogni eventuale limitazione della libertà personale deve obbedire ai rigidi criteri imposti dall’art. 13 della Costituzione e dalle disposizioni di legge in materia.
L’art. 20 D.P.R. 394/99, Regolamento di attuazione prescrive peraltro che il decreto di trattenimento sia comunicato all’interessato a mani proprie e sia adottato in forma scritta e motivata, con traduzione in lingua conosciuta, il trattenuto debba essere informato del diritto di essere assistito da un difensore di fiducia o, in difetto, d’ufficio, e che le comunicazioni saranno effettuate presso il difensore; il trattenimento non può essere protratto oltre il tempo strettamente necessario alla rimozione degli ostacoli che si frappongono all’esecuzione dell’espulsione; il trattenuto non ha lo status di detenuto, tant’è che se fugge non commette il reato di evasione, tuttavia è impedito l’esercizio della sua libertà personale, e, se si allontana dal centro la forza pubblica ha il dovere di ripristinare la misura restrittiva.
L’art. 21, comma 4, dello stesso Regolamento di attuazione prevede che “il trattenimento dello straniero può avvenire unicamente presso i centri di permanenza temporanea individuati ai sensi dell’art. 14, comma 1, del testo unico, o presso i luoghi di cura in cui lo stesso è ricoverato per urgenti necessità di soccorso sanitario”.
Il CPSA di Lampedusa, a Contrada Imbriacola e quello di Pozzallo a Ragusa, rientrano tra quei centri che secondo l’art. 23 sono destinati appunto alle “Attività di prima assistenza e soccorso”. Secondo il Regolamento dunque: le attività di accoglienza, assistenza e quelle svolte per le esigenze igienico-sanitarie, connesse al soccorso dello straniero possono essere effettuate anche al di fuori dei centri di cui all’articolo 22 (CIE), per il tempo strettamente necessario all’avvio dello stesso ai predetti centri o all’adozione dei provvedimenti occorrenti per l’erogazione di specifiche forme di assistenza di competenza dello Stato.
La legge prevede inoltre due ipotesi di provvedimenti limitativi della libertà personale adottati dall’autorità di polizia finalizzati all’identificazione del soggetto: l’accompagnamento ed il trattenimento della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e delle persone in grado di riferire circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti, trattenimento che non può superare le dodici ore e deve essere immediatamente comunicato al pubblico ministero, che può ordinare il rilascio della persona accompagnata (art. 349 c.p.p.); l’accompagnamento ed il trattenimento al solo fine dell’identificazione della persona che, richiestone, rifiuti di dichiarare le proprie generalità, ovvero quando ricorrano sufficienti indizi per ritenere la falsità delle sue dichiarazioni sulla propria identità o dei documenti esibiti, trattenimento che non può protrarsi oltre le ventiquattro ore e deve essere immediatamente comunicato al pubblico ministero, che può ordinare il rilascio della persona accompagnata (art. 11 D.L. 59/78, convertito con modificazioni dalla L. 191/78).
Trattenimento illegittimo e garanzie dei diritti della persona nella CEDU.
L’illegittimo trattenimento dei migranti nel Cpsa di Contrada Imbriacola e nel Cpsa di Pozzallo protrattosi sine die, in assenza di notifica di qualsiasi provvedimento amministrativo e convalida giudiziaria, e le condizioni del trattenimento medesimo, come documentate da immagini che hanno avuto una diffusione a livello internazionale, costituiscono inoltre palese violazione degli artt. 3, 5, 6, 8, 13 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
In base alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, se l’art. 5 comma 1 lettera f. della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) ammette la detenzione amministrativa “regolare” solo nel caso di una persona “contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione”, occorre tuttavia che la misura limitativa della libertà sia “proporzionata ed adeguata”, e che abbia una durata commisurata all’esigenza di assicurare le misure di allontanamento forzato. L’art. 5.2 della CEDU prevede il diritto di qualsiasi persona arrestata di essere informata al più presto ed in una lingua a lei comprensibile delle ragioni dell’arresto e di ogni accusa a suo carico. Va quindi riaffermata la obbligatorietà della immediata presenza di un interprete che salvaguardi il diritto alla comprensione linguistica.
Secondo la Corte Europea dei diritti dell’uomo, una violazione dall’art. 5 potrà risultare sia da una detenzione amministrativa “non conforme”, che dalla mancanza di un ricorso effettivo. Secondo l’art. 5.4 della CEDU “ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha diritto di presentare un ricorso ad un tribunale, affinchè decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima”.
L’art. 5 § 1 impone in primo luogo che tutti i provvedimenti di arresto o di detenzione abbiano una base legale in diritto interno. Tuttavia la «regolarità» di diritto interno non rappresenta un elemento decisivo per escludere la violazione della Convenzione, dato che la Corte deve assicurarsi che il diritto interno sia esso stesso conforme a Convenzione, compresi i principi generali espressamente o implicitamente enunciati nella sua giurisprudenza. Sotto questo profilo, la Corte europea ha sottolineato che quando si tratta di una privazione di libertà è particolarmente importante soddisfare il principio generale di sicurezza giuridica. Di conseguenza è essenziale che le condizioni di privazione della libertà, in virtù del diritto interno, siano chiaramente definite e che la legge stessa sia prevedibile nella sua applicazione, in modo da rispondere al criterio di “legalità” fissato dalla Convenzione, secondo il quale la legge deve essere sufficientemente precisa per evitare rischi di applicazioni arbitrarie (si v.Nasrulloyev c. Russia, sentenza del 1° ottobre 2007, ric. n. 656/06, § 71 e Amuur, cit.). Il criterio di legalità fissato dalla Convenzione esige che tutte le leggi siano sufficientemente precise per permettere ai cittadini di prevedere con un grado ragionevole di certezza, secondo le circostanze del caso, le conseguenze discendenti da un determinato comportamento (Shamsa c. Polonia, sentenza del 27 novembre 2003, § 40). La Corte ricorda altresì che secondo la sua giurisprudenza deve sussistere un legame tra il motivo della privazione della libertà da un lato, e dall’altro il luogo e il regime della detenzione (si cfr.Mubilanzila Mayeka et Kaniki Mitunga c. Belgio, sentenza del 12 ottobre 2006, ric. n. 13178/03, § 53).
Piuttosto significativo sotto questo aspetto è il caso Riad e Idiab c. Belgio, sentenza del 24 gennaio 2008 (ricc. nn. 29787/03 e 29810/03), riguardante due cittadini palestinesi residenti in Libano, arrivati senza visto in Belgio, che avevano chiesto asilo politico ma la cui richiesta era stata respinta. Trasferiti in un centro per immigrati illegali, avevano ottenuto una decisione giudiziaria definitiva che li rimetteva in libertà, ma ciononostante erano stati trasferiti nella zona di transito dell’aeroporto di Bruxelles ove erano stati trattenuti per oltre dieci giorni al fine di costringerli ad accettare una partenza spontanea. In seguito, dopo che un provvedimento giudiziario ebbe ingiunto di lasciarli liberi, ricevettero un ordine di allontanamento e furono trattenuti in un centro per immigrati illegali fino al rimpatrio avvenuto dopo altri venti giorni circa. Nel caso di specie la Corte ha ritenuto violato l’art. 5 CEDU in relazione al trattenimento nella zona transiti dell’aeroporto nonostante l’ordine giudiziario che li rimetteva in libertà: la zona di transito dell’aeroporto, dove i ricorrenti erano stati abbandonati a se stessi, senza accompagnamento umanitario, non costituisce infatti un luogo adatto alla detenzione. La Corte ha considerato che il fatto di detenere una persona nella zona transiti per un periodo indeterminato ed imprevedibile senza una disposizione o una decisione assoggettata a controllo giudiziario, sia in sé contrario al principio di sicurezza giuridica, che è implicitamente riconosciuto dalla Convenzione e che costituisce uno degli elementi fondamentali dello Stato di diritto (si v., mutatis mutandis, Shamsa, cit., § 58). Quanto al trattenimento nel centro per immigrati illegali, mentre non venivano ancora eseguite le decisioni di rimpatrio, e in spregio alle ordinanze giudiziarie definitive, la Corte lo ha ritenuto anch’esso in violazione dell’art. 5 CEDU. In riferimento alla lamentata violazione dell’art. 3 CEDU il giudice di Strasburgo rileva che la privazione della libertà dei ricorrenti si fondava sul solo fatto di non essere in possesso di un titolo di soggiorno regolare. In tali casi, se gli Stati sono autorizzati a condurre in luoghi di detenzione degli immigrati potenziali, come già si è sottolineato, questo loro potere deve tuttavia essere esercitato in conformità alle disposizioni della Convenzione. La Corte tiene conto della situazione particolare di queste persone nel controllare la conformità a Convenzione delle modalità di esecuzione delle misure di detenzione, in particolare in riferimento all’art. 3 CEDU che proibisce in termini assoluti la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, quali che siano le circostanze o i comportamenti della vittima (v. infra). La zona di transito non è un luogo adatto alla detenzione, poiché essa è destinata all’accoglienza di persone di durata brevissima, ed ha caratteristiche che possono far nascere nei detenuti un sentimento di solitudine: non vi è alcun accesso all’esterno per camminare o fare esercizio fisico, né strutture interne di ristoro, né contatti con il mondo esteriore. Per la Corte è inaccettabile che chiunque possa essere detenuto in condizioni nelle quali vi sia una assenza totale di attenzione ai suoi bisogni essenziali (si v. ancora Riad e Idiab.). Naturalmente la detenzione deve rispondere alla ratio dell’art. 5, che mira a tutelare l’individuo rispetto all’arbitrio delle autorità statali, e che va al di là della semplice conformità al diritto nazionale, richiedendo anche che quest’ultimo sia conforme alla CEDU. Nella pronuncia in esame la Corte europea ha avuto modo di precisare i criteri in base ai quali deve verificarsi la non arbitrarietà di una misura restrittiva della libertà personale: 1) la detenzione deve essere disposta in buona fede; 2) deve essere strettamente legata allo scopo consistente nell’impedire ad una persona di entrare irregolarmente nel territorio; 3) il luogo e le condizioni della detenzione devono essere appropriati, dato che una simile misura si applica non a soggetti che hanno commesso reati, ma a stranieri che sovente, temendo per la loro vita, fuggono dal loro paese; 4) infine, quanto alla ragionevole durata, la detenzione non può eccedere il tempo necessario a raggiungere lo scopo perseguito. Così se la procedura non è condotta con la dovuta diligenza la detenzione cessa di essere giustificata (Saadi c. Regno Unito, §§ 90 ss.).
Alcune proposte, oltre l’emergenza quotidiana.
Occorre che la società civile crei delle “unità di crisi” composte da cittadini solidali, attivi a livello locale, per contrastare la crescente militarizzazione delle frontiere interne e dei porti, e da un’altra parte lo sviluppo esponenziale di movimenti apertamente xenofobi e razzisti.
Bisogna ottenere un tavolo permanente di confronto con le prefetture per negoziare le prassi di prima accoglienza.  In questa nuova fase caratterizzata dall’accoglienza/detenzione emergeranno ancora più evidenti le contraddizioni di tutte quelle organizzazioni, “embedded”, in convenzione con il ministero dell’interno, che prestano la loro attività “umanitaria” all’interno dei centri, in modo da risultare funzionali alle logiche di trattenimento amministrativo e di selezione sommaria dei migranti, in vista di un loro possibile allontanamento forzato verso i paesi di origine. Anche se in quei paesi, come la Nigeria, si ripetono gravi violazioni dei diritti umani e domina la corruzione e la collusione tra polizie e trafficanti.
Vanno bloccati i respingimenti collettivi e gli accordi di riammissione con paesi che non garantiscono il rispetto effettivo dei diritti fondamentali della persona.
Occorre adottare misure straordinarie, come quelle previste dal Decreto legislativo 2011/55/CE e dall’art. 20 del t.U. sull’immigrazione, previsti appunto in caso di afflusso massiccio di sfollati, norme peraltro già applicate nel 1999 ( crisi del Kosovo ) e nel 2011 (emergenza nord africa).
Permessi di soggiorno temporanei e visti di transito costituiscono l’unica soluzione possibile per decongestionare il sistema di accoglienza italiano e favorire la mobilità secondaria verso altri paesi in condizioni di legalità. Deve chiedersi a questo fine la sospensione temporanea del Regolamento Dublino III verso l’Italia, come è stato fatto da molti paesi nei confronti della Grecia.
Occorre garantire sicurezza ed accoglienza ai minori non accompagnati che devono essere ospitati solo in strutture accreditate. La nomina dei tutori deve avvenire senza indugio e vanno creati albi di tutori volontari.
Le potenziali vittime di tratta vanno identificate e monitorate anche nei centri di prima accoglienza, che non devono diventare luoghi di detenzione amministrativa.
Le procedure di asilo vanno avviate immediatamente e non possono durare oltre due anni, come avviene attualmente. Occorrono procedure accelerate per tutti coloro che provengono da “paesi terzi NON sicuri”, come la Libia, l’Eritrea, l’Afghanistan, l’Irak e la Siria. Procedure che durino al massimo in sei mesi per il riconoscimento di uno status di soggiorno legale, o di documenti di transito per consentire i ricongiungimenti familiari superando le storture del Regolamento Dublino III.
Vanno modificate tutte le politiche europee e gli accordi bilaterali, anche di riammissione, che tendono alla esternalizzazione del diritto di asilo ed alla collaborazione con i paesi terzi, per bloccare le partenze, anche da quegli stati caratterizzati da una dittatura militare o in mano a governi criminali, come nel caso del Sudan. E’ questa la direzione nella quale L’Unione Europea e l’Italia si muovono con crescente determinazione nell’ambito del cd. Processo di Khartoum, al fine dichiarato di combattere le reti di trafficanti ma in realtà per impedire che i migranti ed i profughi tutti possano attraversare le frontiere in Africa e nel vicino oriente, e quindi avvicinarsi ai confini europei. Si tratta purtroppo di indirizzi politici e di prassi applicate che si vanno realizzando al di fuori di una qualsiasi legittimazione parlamentare, a livello di accordi di polizia, sotto l’occhio attento degli ispettori di FRONTEX e degli agenti di EASO, l’agenzia europea che dovrebbe supportare i paesi dell’Unione maggiormente in difficoltà per l’elevato numero di arrivi e di richieste di protezione internazionale. In questa direzione è stata organizzata la Conferenza europea prevista a Malta il prossimo mese di novembre.
La società civile organizzata ed i cittadini solidali sapranno rispondere a queste politiche di esclusione e di discriminazione. Giorno dopo giorno. A piccoli passi, siamo tutti in marcia e non ci fermeranno.