mercoledì 9 ottobre 2013

Siria, da Dover a Catania in cerca del fratello L’incontro e il nuovo addio al molo del porto

Di Salvo Catalano, Carmen Valisano - CTZEN
«Devi andare a cercare tuo fratello in Sicilia, non so se è ancora vivo, ma potrebbe essere sbarcato». Ieri mattina una telefonata ha stravolto la giornata di Maz, businessman siriano trasferitosi nel Regno Unito. 

Dall’altro capo del telefono c’è la madre, rimasta nel Paese dilaniato dalla guerra civile, avvisata da una telefonata del probabile arrivo del figlio più piccolo sulle coste dell’Isola. L’uomo raggiunge nel pomeriggio il porto di Catania, dove avviene il commovente ricongiungimento. Che, però dura poco. «Ha rifiutato di venire con me perché non vuole farsi identificare», racconta Maz. Lo stesso vale per gli altri siriani arrivati ieri. 

Quando il telefono squilla nella casa di Maz, a Dover, in Inghilterra, è ancora mattina. «Devi andare a cercare tuo fratello in Sicilia, non so se è ancora vivo, ma potrebbe essere sbarcato». Una voce di donna: l’amore di una madre per i figli non conosce mezze misure, esitazioni, tentennamenti. L’ordine viene da migliaia di chilometri di distanza, da Lattakia, città portuale della Siria vicino al confine turco, contesa a lungo nei mesi estivi dai ribelli e dall’esercito di Bashar al Assad, dilaniata dalla guerra civile. Maz non aspetta un minuto di più. Lascia il suo lavoro di businessman, dà un bacio ai suoi due figli e prende il primo biglietto disponibile su un aereo diretto Londra-Catania.

Alle sei e mezza del pomeriggio è davanti alla sbarra del porto del capoluogo etneo. Qui, gli hanno detto, sono stati fatti sbarcare i 263 migranti di origine siriana, palestinese ed egiziana intercettati dalla capitaneria di porto la scorsa notte. Una ventina – quelli che hanno acconsentito all’identificazione – sono già stati trasferiti al Palaspedini, accanto allo stadio Massimino.

Ma la maggior parte del gruppo è ancora sul molo sud del porto, lì dove il mercantile battente bandiera panamense li ha lasciati alle otto di ieri mattina. Molti hanno ancora i vestiti logori della traversta, partita dall’Egitto e durata dieci giorni secondo le loro testimonianze. Qualcuno indossa una maglietta pulita della Ipi-Oikos, la ditta della raccolta rifiuti, donata dal Comune. Ci sono tanti bambini, uno di appena due anni, a cui i genitori scattano foto ricordo. Mentre i minori non accompagnati sono stati trasferiti già al mattino nelle comunità idonee. In un gazebo bianco della Croce Rossa le visite mediche vanno avanti senza sosta. Di fronte, una grande tenda militare dove viene distribuito il cibo e accanto una camionetta della polizia in cui i migranti vengono fatti salire ad uno ad uno, probabilmente per procedere all’identificazione. A cui nessuno però vuole sottoporsi. Tutto attorno un via vai di carabinieri, finanzieri, poliziotti, volontari della protezione civile, mediatori culturali ed interpreti. «Riuscite a procurare dell’acqua? Ce la vengono a chiedere di continuo, ma non ne abbiamo», chiede un’operatrice della Croce Rossa ai volontari. Niente da fare, bottigliette d’acqua non ce ne sono più.