lunedì 28 luglio 2014

Visita ai centri di accoglienza per minori non accompagnati di Priolo e Portopalo

A Portopalo e Priolo sono stati aperti due centri di accoglienza straordinaria per minori non accompagnati. Questi due centri ospitano molti ragazzi minorenni arrivati in Sicilia e in particolare nel siracusano a partire da gennaio scorso. I due diversi enti che gestiscono il centro si dovrebbero preoccupare non solo di garantire un vitto e un alloggio dignitosi per questi ragazzi, ma anche di assisterli nelle pratiche legali e preoccuparsi di garantire loro una buona permanenza prima che vengano trasferiti in strutture d’accoglienza dove possano cominciare finalmente una nuova vita.

Il centro di accoglienza per minori non accompagnati di Priolo è gestito dall’associazione onlus “Papa Francesco” di Priolo.
Arrivo verso le undici di una caldissima mattinata. Nel grande cortile adiacente alla struttura i ragazzi sono seduti in piccoli gruppi e chiacchierano e scherzano con gli operatori. Altri pregano, ascoltano musica, sonnecchiano sotto gli alberi. È tempo di Ramadan e il sole brucia davvero: le ore più calde del giorno sembrano non finire più, mi dicono i ragazzi. Sembra un ambiente tranquillo ma al tempo stesso vivace. Il direttore del centro mi invita a sedere con lui sotto un grande albero nel giardino. 
Attualmente nel centro sono ospitati 93 minori (o per meglio dire dichiaratisi tali visto che non ci sono il tempo e le risorse per fare la radiografia del polso che verifichi l’età di tutti, mi fa notare il direttore). Sono quasi tutti di origine subsahariana (Gambia, Senegal, Mali). Alcuni arrivano invece da Bangladesh ed Egitto. I primi sono arrivati lo scorso gennaio, dunque ormai quasi sette mesi fa; mentre gli altri in diversi momenti nei mesi successivi.
Proprio perché i ragazzi sono liberi di entrare ed uscire quando vogliono, in non pochi (soprattutto eritrei e siriani) si sono allontanati poco dopo il loro arrivo e non sono più rientrati al centro. ll direttore mi dice che spesso gli operatori del centro hanno potuto ricondurre questi casi alla presenza di macchine che aspettavano i ragazzi alla fine della strada che conduce al centro. Questi allontanamenti erano probabilmente facilitati da una rete organizzata di migranti che vivevano a Priolo e che è stata in seguito denunciata. Niente di cui stupirsi dato che i tempi burocratici per ottenere il permesso di soggiorno o la protezione internazionale in Italia sono incredibilimente lunghi e frustranti (come potrò capire dalle parole dei ragazzi): chi se lo può permettere preferisce dunque arrangiarsi, raggiungere amici o parenti e iniziare le pratiche altrove.
 Il centro offre assistenza legale ai ragazzi anche grazie all’aiuto dell’ ARCI di Siracusa e in particolare dell’iniziativa di AccoglieRete.  Quasi tutti i ragazzi hanno fatto richiesta d’asilo, in molti (quasi tutti quelli arrivati prima di maggio) già hanno ottenuto i loro documenti.
A quasi tutti i ragazzi, è stato assegnato un tutore: un cittadino che si rende responsabile di seguire e dare supporto al minore nelle pratiche legali. Il direttore del centro mi fa notare come queste persone siano coinvolte in più modi nella vita di questi giovani: vengono a prenderli, li portano a pranzo, passano insomma un po’ di tempo libero con loro.
Attualmente dieci persone lavorano nel centro: cinque operatori, un mediatore culturale, un assistente sociale, due addetti alle pulizie e il direttore. Inoltre all’interno della struttura lavorano un altro mediatore culturale, una psicologa e una sociologa dell’associazione Terre des Homme. Il direttore sottolinea come la presenza di queste tre figure sia assolutamente fondamentale; in particolare il ruolo della psicologa risulta di grande importanza. Questa permette infatti di esplorare più sensibilmente e dettagliatamente le storie e dunque i bisogni dei ragazzi del centro. Una scheda personale viene compilata per ogni minore, con informazioni a proposito del livello educativo dei ragazzi, le loro capacità, i loro progetti futuri, i loro sogni. L’obbiettivo è di aiutare in questo modo le future strutture in cui andranno, ad orientare il futuro educativo e/o lavorativo di questi ragazzi.
Ogni mercoledì, il polibus di Emergency si sposta a Priolo per assistere e visitare i ragazzi. Inoltre, alcune professoresse in pensione offrono regolarmente il loro aiuto per insegnargli l’ italiano, con l’aiuto di mediatori culturali, operatori e una ragazza volontaria che passa già da alcuni mesi le sue mattine presso il centro. Effettivamente noto come i ragazzi che sono arrivati da alcuni mesi già parlino discretamente bene italiano e riescano a farsi capire anche da quella parte dello staff che invece non parla inglese.
Per ogni ragazzo, l’ente gestore riceve 20 euro al giorno. Il direttore mi fa notare come questi soldi risultino essere il minimo indispensabile per far funzionare correttamente la struttura. Ogni giorno, il servizio di catering che porta i pasti ai ragazzi (due volte al giorno perché la colazione è preparata separatamente dagli operatori del centro) costa più di 10 euro a persona. “Se a questo si aggiungono il costo del personale, le spese di gestione e tutto ciò di cui i ragazzi hanno bisogno ( prodotti per l’igene personale, vestiti, schede telefoniche, etc.) il budget giornaliero viene spesso superato”, continua il direttore. “Questi soldi non sono molti ma sono, diciamo, sufficienti per il funzionamento corretto della struttura e per dare ai ragazzi le cose indispensabili di cui hanno bisogno”, continua, “vorrei proprio sapere come vengono usati i soldi in una struttura SPRAR dove l’ente gestore riceve il doppio dei soldi ogni giorno per persona”, continua. Il direttore se lo chiede sempre più da quando molti dei ragazzi trasferiti in strutture SPRAR (perché diventati nel frattempo maggiorenni) tornano al centro di Priolo pieni di lamentele a proposito della loro nuova sistemazione e di quanto viene offerto loro.
Il direttore del centro denuncia inoltre la poca attenzione della comunità musulmana nei confronti di questi ragazzi. Nonostante le sue numerose richieste, nessuno si è offerto di venire al centro per dare sostegno spirituale a questi ragazzi che si organizzano dunque tra loro per leggere il corano e pregare insieme. La comunità cattolica si è invece dimostrata molto disponibile: spesso sono venuti a prendere i pochi ragazzi cattolici per portarli in chiesa e farli partecipi della vita religiosa del paese. Questa differenza, mi dice il direttore, ha partato addirittura alcuni ragazzi musulmani ad avvicinarsi alla religione cattolica. A detta del direttore indecenti sono stati invece i numerosi tentativi di altri gruppi religiosi, quali testimoni di Geova e mormoni, i quali sono spesso arrivati al centro chiedendo di poter parlare con i giovani migranti per fare propaganda religiosa.
Parlando con i ragazzi ho capito che la situazione del centro di accoglienza di Priolo è molto buona. In particolare il rapporto con gli operatori e il lavoro di volontari e dell’associazione Terre des Hommes sembrano essere davvero ottimi. Una parte della comunità sembra anche molto disponibile e presente nell’aiutare i ragazzi. Nonostante ciò, in molti sono stufi di aspettare il giorno in cui saranno finalmente trasferiti in una struttura non emergenziale e potranno finalmente cominciare a studiare, cercare un lavoro, cominciare insomma una nuova vita. Spesso sembrano non sapere come passare il tempo: a parte bighellonare per il cortile, studiare un po’ di italiano, chiacchierare con gli operatori, giocare a calcio o andare a fare una passeggiata, non c’è molto da fare. I tempi burocratici per essere trasferiti in altri centri, nelle case famiglia o negli SPRAR, continuano ad allungarsi e nessuno sa fino a quando. Così, per il momento, non c’è scelta. “Noi non siamo abituati a questa vita. Siamo abituati a fare cose tutto il giorno, studiare, lavorare, darci da fare”, mi dicono, “qui stiamo seduti e aspettiamo e fumiamo. Io non avevo mai fumato prima di arrivare qua”.
Inoltre mi raccontano di come spesso, forse troppo spesso, si sentano vittime di comportamenti discriminatori e razzisti da parte della popolazione locale. Tante persone danno un aiuto concreto portando vestiti e altro materiale per i ragazzi, o facendo semplicemente una visita di tanto in tanto. Tuttavia molti ragazzi del paese rispondono negativamente alla presenza di questi giovani: “se siamo in giro e salutiamo qualche ragazzo della nostra età, in tanti ci ignorano o ciguardano male”.
Il centro di accoglienza per minori di Portopalo di Capo Passero si trova in una delle vie centrali del paese ed è un ex struttura alberghiera (Hotel Aloha, ex B&B). È in funzione dall’1 marzo di quest’anno. La cooperativa che lo gestisce si chiama “La forza della vita”ma il direttore del centro non vuole darmi maggiori informazioni sul tipo di convenzione tra l’ente gestore e la prefettura. Il personale che lavora nel centro è composto da 8 operatori e 2 collaboratori. La struttura sembra dignitosa. All’entrata vi è un divano e alcuni tavoli con un computer e una televisione. Molti dei ragazzi si trovano là: seduti chiacchierano e si guardano intorno. Altri li vedo conversare o pregare nel cortile adiacente all’edificio, che è anche a loro disposizione.
Attualmente nel centro sono ospitati 47 ragazzi tra i 15 e i 19 anni giunti in Sicilia nei mesi scorsi (gli ultimi sono arrivati circa un mese e mezzo fa). Il direttore del centro mi informa che vengono tutti dall’Africa subsahariana e che gli unici ragazzini egiziani che vivevano nella struttura sono stati trasferiti al centro di accoglienza di Augusta (gestito direttamente dal Comune di Augusta) più di un mese fa, a causa del loro comportamento maleducato e troppo vivace. Il direttore mi informa che a lui non risulta chiaro se i ragazzi siano di fatto tutti minorenni. “Alcuni sembrano molto più grandi” dice “ma in Libia dicono loro di dichiararsi minorenni così da essere trattati in una maniera particolare una volta arrivati”.
Ogni settimana un medico dell’ASP e un mediatore culturale visitano la struttura. Alcuni ragazzi sono già in possesso di documenti, altri invece no. Il comune e gli assistenti sociali, sembrano invece seguire la situazione da lontano senza regolari visite o controlli, ed in pochissimi hanno già i documenti.
I ragazzi sono liberi di entrare e uscire dal centro a loro piacimento; hanno a disposizione computer, televisione e un bigliardino. Ogni settimana vengono portati a giocare a calcetto a Pachino dove si trovano con  i ragazzi del paese.
“Nonostante ciò”, mi spiega il direttore, “questi ragazzi restano pieni di pretese”.
L’intensità di queste “pretese” aveva portato un mese fa i ragazzi a protestare animatamente per le strade del paese. In molti infatti avevano bloccato la strada principale di Portopalo per protestare contro le condizioni del centro di accoglienza e le tempistiche burocratiche necessarie per ricevere i documenti ed essere poi trasferiti in strutture più idonee.
In particolare i ragazzi mi dicono che la loro è stata una reazione alle continue promesse da parte degli operatori del centro rispetto al loro trasferimento (mai mantenute) e a determinate questioni rispetto alle quali non erano mai stati presi in seria considerazione. Per esempio i ragazzi già da tempo chiedevano di poter avere acqua in bottiglia anziché dover bere quella corrente del rubinetto (ritenuta “imbevibile”) ed avere a loro disposizione più possibilità per passare il loro tempo libero (libri, giochi, etc.)
Quel giorno la manifestazione si era trasformata in guerriglia con lanci di pietre e colpi di bastoni tra abitanti del paese e giovani migranti. Inoltre, il direttore del centro mi racconta che lui e gli altri operatori erano stati minacciati di restare bloccati all’interno della struttura se non fossero state garantite immediatamente migliori condizioni generali d’accoglienza.
Il direttore si sfoga dicendo che davvero non capisce come questi ragazzi abbiano il coraggio di lamentarsi, considerate le condizioni in cui erano costretti a vivere in Libia..
“Continuano a pretendere!”, mi dice, “vogliono cibo diverso da quello che ricevono, vogliono giochi, sigarette, vogliono, vogliono, vogliono…”.
I ragazzi mi dicono che dopo la protesta di giugno alcune cose sono cambiate: alcuni di loro sono stati finalmente trasferiti, ora hanno a loro disposizione acqua in bottiglia e persino hanno ottenuto un bigliardino.
Nonostante la situazione del centro sia dunque, almeno in parte, recentemente migliorata e alcuni operatori si stiano preoccupando di migliorare la qualità dell’accoglienza dei ragazzi (organizzando per esempio laboratori musicali), la vita a Portopalo non sembra affatto facile. I ragazzi lamentano continui episodi di discriminazione e razzismo da parte degli abitanti del luogo. “Spesso salutiamo i passanti e loro ci insultano”, raccontano i ragazzi, “all’inizio non capivamo quello che ci dicevano ma poi abbiamo chiesto agli operatori e non ci potevamo credere”.
 “Sono arrivato in Italia con la speranza di trovare un po’ di pace”, mi dice un ragazzo, “ma invece c’è così tanto razzismo che mi sembra di vedere in fronte a me solo altri e nuovi problemi”.
È chiaro che il rapporto con la comunità condiziona enormemente il loro stato d’animo e alimenta di continuo sentimenti di frustrazione e soprattutto la voglia di andarsene. Nessuno vuole restare in un luogo dove non solo non si sente in nessun modo né accolto, né accettato dalla comunità e dove è costretto invece a convivere quotidianamente con l’assoluta mancanza di empatia e solidarietà da parte degli abitanti del paese. Certo il fatto che quasi nessuno può comunicare con loro in inglese o francese non aiuta la comprensione e la comunicazione, ma a volte solo un sorriso o una stretta di mano potrebbero trasmettere molto.
In entrambi i centri associazioni, volontari e almeno alcuni degli operatori cercano costantemente di rendere la vita quotidiana di questi ragazzi interessante, o per lo meno sopportabile: non solo offrono loro assistenza pratica e psicologica e organizzano diversi tipi di attività, ma anche e soprattutto si comportano da amici e cercano di offrire a questi giovani un sostegno che vada oltre la sfera lavorativa e le dinamiche formali di un centro d’accoglienza.
Nonostante ciò i tempi burocratici per regolarizzare il loro status sono lunghi e la frustazione che porta l’attesa sembra spesso sopraffare ogni altra cosa.
D’altra parte, nonostante siano stati costretti a lasciare i propri paesi, sono arrivati in Italia pieni di sogni e aspettative per il loro futuro: c’è chi sogna di diventare giornalista, chi elettricista, chi autista di autobus e chi avvocato… Nei loro occhi si legge una forte determinazione; tutta la sofferenza e le difficoltà che hanno attraversato li hanno resi forti. Hanno la speranza di cominciare una nuova vita in Italia o in Europa e un sacco di buona volontà. Certo affinchè questo accada non c’è solo bisogno di documenti e velocità burocratica, ma anche della volontà dei cittadini di capirli, accoglierli, dare loro una mano, sorridergli. 
Irene Leonardelli
Borderline Sicilia