giovedì 30 ottobre 2014

I centri d'accoglienza nelle Madonie (Palermo) – terza parte

“Siamo esseri umani”
Nel parco regionale delle Madonie, oltre a paesaggi stupendi e incontaminati, numerosi animali ed una rigogliosa vegetazione, vi sono due strutture adibite a centri di accoglienza: Baita del Faggio e Piano Torre Hotel. All’apertura, nel dicembre 2013, la gestione era affidata alla Parrivecchio SRL. A maggio vi è stato un passaggio di testimone a favore della cooperativa Scarabeo.
Entrambi i centri sono difficilmente raggiungibili per via della loro collocazione geografica. Una volta raggiunti, la realtà resta comunque difficile da osservare a causa delle testimonianze contraddittorie e imprecise di chi vi abita o vi lavora. Al fine di capire meglio e far combaciare il più possibile le diverse versioni, mi ci reco due volte.



Sia il mediatore culturale, che mi accoglie la prima volta, che la responsabile dell’amministrazione, che incontro alla seconda visita, sostengono che i due centri siano dei CARA. I due centro sono in realtà dei comuni CAS.
Baita del Faggio. La struttura è attualmente chiusa. Il mediatore descrive il centro come una soluzione temporanea (durata un paio di mesi) per la primissima accoglienza. Mi dice che vi venivano trasferiti gruppi molto numerosi di immigrati subito dopo il loro arrivo. Mi racconta che una volta circa 200 eritrei sono scappati durante la prima notte di soggiorno nella Baita. L’altra operatrice, invece, mi spiega che la chiusura del centro è solo momentanea. L’accoglienza nella Baita è stata sospesa a causa di un documento mancante. Chiedo se le risulta che vi siano state delle fughe in passato e lei risponde che solo una volta un ragazzo è scappato per andare in Germania, ma poco dopo è tornato.
Piano Torre Hotel. Il centro ospita da circa 4 mesi 43 ragazzi di varie nazionalità (Mali, Senegal, Gambia, Sierra Leone…).
I ragazzi finora sono stati portati a Palermo per le visite mediche, ma si sta cercando avere la possibilità di fare riferimento a Cefalù per quanto riguarda le visite dal medico generico. Finora era il medico a recarsi al centro una/due volte a settimana. Al momento della mia seconda visita mi viene detto che si stanno facendo gli ultimi STP (Straniero Temporaneamente Presente, tesserino con un codice che viene rilasciato agli stranieri che non possono iscriversi al Sistema Sanitario Nazionale perché irregolarmente presenti sul territorio italiano) dato che, in questi 4 mesi, alcuni migranti non hanno avuto alcun problema di salute.
Per quanto riguarda il cibo, mi viene assicurato che si cerca di seguire una dieta equilibrata: riso e contorno a pranzo, carne con contorno a cena. Le pietanze vengono cucinate nel centro stesso quindi la loro freschezza è assicurata. I migranti affermano di mangiare riso praticamente privo di condimento tutti i giorni, tante patate e la carne, se va bene, una/due volte a settimana.
I vestiti vengono raccolti attraverso una rete informale di conoscenze tra chiese e privati. Dei vestiti consegnati agli operatori, solo una parte arriva ai migrati. Gli operatori spiegano che spesso gli abiti che vengono donati sono di taglie troppo grandi o troppo piccole e che talvolta i migranti rifiutano di indossare indumenti per ragazzini o anziani. La versione dei migranti è diversa: gli operatori premierebbero gli ospiti più tranquilli con i vestiti e eviterebbero di consegnarli a chi protesta.
Il pocket money è di 2.5 euro al giorno. I ragazzi si lamentano di non poterlo utilizzare ironizzando sul fatto che vivono in mezzo ai boschi. Lo usano principalmente per comprare crema, sigarette e lamette nel centro stesso. L’operatrice mi dice che, per evitar loro di dover scendere in paese, portano e vendono tabacco e crema direttamente nell’hotel.
Il paese più vicino è a circa 9 km di distanza, lungo uno strada di tornanti in mezzo agli alberi. In macchina ci si mette un quarto d’ora correndo a 40-45km/h, a piedi però la distanza sembra interminabile. I ragazzi sono liberi di uscire dalla mattina alla sera come in qualsiasi altro CAS, ma per andare dove? Per cosa fare? I migranti mi dicono più volte di sentirsi in prigione. “Siamo esseri umani” rivendicano, come se qualcuno lo avesse messo in dubbio. Mi raccontano che delle bestie la notte sentono l’odore del cibo e cercano di entrare nella struttura. Io stessa, quando la sera lascio l’hotel, mi imbatto in due cinghiali. I ragazzi vogliono essere trasferiti, questa preoccupazione supera di gran lunga il bisogno di ricevere i documenti. “Anche se ricevo dei documenti, qui, cosa me ne faccio? Li mostro agli alberi?” domanda un richiedente asilo.
I migranti non hanno fiducia in nessuno. Sono convinti che polizia, gestore, operatori e proprietari dell’hotel agiscano nell’intento di farli vivere nel disagio e nella privazione. A me sembra piuttosto che i migranti siano l’ultimo pensiero di quanti ne determinano di fatto il destino. Ma forse credere di essere degni almeno di crudeli attenzioni fa sentire questi ragazzi meno distanti e dimenticati dal mondo.
I ragazzi mi raccontano di come abbiano cercato di portare le proprie istanze fuori dal centro. Il 18 agosto 33 migranti sono andati alla polizia di Isnello per la prima volta, occasione in cui è stato loro promesso il trasferimento. A fine mese il trasferimento per 33 persone è stato effettivamente predisposto, ma portato a Baita del Faggio dove vi erano 36 persone: 33 sono stati mandanti verso il nord Italia, 2 erano minori e quindi sono stati indirizzati verso centri idonei, un migrante è stato portato a Piano Torre. Secondo gli ospiti di Piano Torre i trasferimenti erano indirizzati a loro, ma i gestori dei centri hanno preferito liberarsi dei più indisciplinati, i ragazzi della Baita. Sono tornati a protestare alla polizia il 3 settembre, questa volta senza nessun risultato. La polizia ha semplicemente detto loro: “Ma siete ancora qui?”.
I migranti mi spiegano che al principio erano tranquilli. Per portarmi un esempio di come abbiano progressivamente perso la fiducia e la pazienza mi raccontano la seguente vicenda. Quando sono arrivati, è stato loro detto che se avessero pulito la piscina, avrebbero potuto usarla. Ma dopo averla pulita hanno potuto farci il bagno solo una volta. L’operatrice dice, giustamente, che la piscina non è un servizio dovuto. Per giustificarsi spiega che sono i proprietari dell’hotel a gestirla e che l’associazione Scarabeo non ha alcun diritto sulla piscina. E poi osserva che senza un bagnino nessuno può nuotarvi. Eppure questo non è stato spiegato ai ragazzi prima che la sistemassero rendendola nuovamente utilizzabile. I migranti rincarano la dose dicendomi di essersi sentiti doppiamente presi in giro quando hanno visto dei turisti pagare per usare la piscina che loro stessi avevano pulito. Turisti? Durante la seconda visita chiedo all’operatrice se la struttura funziona ancora come hotel o ristorante. Lei dice di no. Ripropongo la questione ai migranti: “Ragazzi come la mettiamo? Gli operatori mi dicono che non ci sono turisti.”. Loro mi rispondono sconcertati che i turisti vengono, pernottano presso l l’hotel e utilizzano la piscina. Mi spiegano che, quando vi sono turisti, non sono autorizzati a stare attorno alla piscina né nelle sale comuni. Vanno a chiamare “mamma Sara” (la responsabile dell’amministrazione) e le chiedono di ripetere la sua versione in loro presenza. Sara allora cambia lentamente idea. Dapprima ammette che ci siano state delle persone per pranzo, poi spiega che queste talvolta si siano trattenute il pomeriggio e abbiano usano la piscina. Dopo varie esitazioni e la pressione dei migranti, cede e conferma che una squadra di calcio è venuta ad allenarsi e si è fermata anche per la notte. Si affretta però a ribadire che ciò non li riguarda: sono i proprietari ad essere responsabili dell’utilizzo della struttura. I ragazzi mi presentano questo ripensamento come prova del fatto che non ci si può fidare di quanto dicono i gestori. Nulla si può sapere sulle intenzioni delle persone, ma il rimpallo di responsabilità tra cooperativa e proprietari della struttura suggerisce una poca trasparenza nel regime di gestione del centro/hotel.
Prima di andarmene, vengo raggiunta da un ragazzo che era stato in disparte durante la chiacchierata pubblica. Mi ordina severamente di aiutarli, il tono della sua voce è quasi minaccioso. La motivazione che adduce è diversa da quelle portate dagli altri: dice di avere problemi di salute e che i medici fanno solo finta di curarlo. Chiedo di spiegarsi meglio e questo aggiunge: “Da quando sono arrivato sento delle cose sotto la pelle che mi pungono. Il dottore mi ha dato una crema da mettere per qualche giorno. Io l’ho fatto, ma non è cambiato niente. Mi hanno visitato e non hanno trovato nulla. Ma io lo sento, c’è qualcosa dentro di me che mi punge sotto la pelle”. Posso solo immaginare che si tratti di psicosi, evidentemente non trattata.
L’indomani della mia seconda visita, la polizia è passata al centro e ha promesso che in 20 giorni avrebbe fatto avere ai migranti il permesso di 3 mesi. I ragazzi non hanno perso tempo e hanno ribadito per la terza volta la loro priorità: la necessità di essere trasferiti.



Carlotta Giordano
Borderline Sicilia Onlus