mercoledì 13 gennaio 2016

Una barricata nel limbo: gli occupanti del centro “La Locanda”

 Sono arrivato con gli altri bianchi. Due auto della polizia si sono fermate all'inizio della strada e si è formata una folla attorno a un blocco stradale improvvisato che fermava i veicoli che entravano nel viale che porta alla struttura.
Il centro di accoglienza “La Locanda” si trova a circa due ore a piedi da Castelvetrano e a un'ora da Marinella di Selinunte. Tutt'intorno si estendono desolati terreni agricoli. Situato proprio in mezzo al nulla, ospita circa 100 ragazzi che provengono dall'Africa occidentale e dal subcontinente indiano. Alcuni di essi sono rimasti qui ad aspettare per quasi due anni. Tale periodo di attesa è imposto loro dal lentissimo sistema d'accoglienza italiano per quanti chiedono protezione internazionale, il che significa che un centro designato ad ospitare persone per solo pochi mesi alla volta è diventato un sostegno istituzionale per decine di ragazzi, i quali si affidano ad esso per l'assistenza per ottenere i documenti.

Le uniche pause nel loro soggiorno sono quelle costituite da brevi permessi di viaggio – durante i quali non ricevono la consueta 'paghetta' – o dai più faticosi dei lavori. In ogni caso, la permanenza in tale centro non è obbligatoria: in effetti essa non aumenta nemmeno le loro probabilità di ricevere asilo. Tuttavia si tratta dell'unico sistema statale di supporto disponibile per costoro: naturalmente, con la mediazione di aziende private. D'altronde, una volta registrati presso il centro, esso diventa il loro domicilio ufficiale dove ricevere la posta. Mentre passano i mesi, il tempo investito nell'attesa diventa esso stesso una ragione per restare, perfino in centri che avrebbero decisamente bisogno di essere migliorati o chiusi.

Quella per i documenti è dunque in realtà una lotta per uscire da una situazione difficile. Lo scorso lunedì pomeriggio la situazione è precipitata quando uno dei ragazzi ha richiesto ancora una volta informazioni sui suoi documenti e il manager ha perso la calma. Gli occupanti mi dicono che quella è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il mattino dopo, i presenti nel centro (circa 60 persone, mente circa altri 30 erano in permesso di viaggio) hanno deciso di espellere gli operatori e barricare il viale, in segno di protesta contro i lunghissimi tempi di attesa per i documenti, quel sigillo ufficiale che sentono tanto necessario per continuare a vivere e a fare progetti. Ciò che esigono è che la polizia di Trapani (che è il posto in cui tutti hanno rilasciato le loro dichiarazioni allo scopo di richiedere l'asilo) venga al centro per discutere le loro situazioni. Per “polizia”, gli occupanti intendono piuttosto quanti presiedono all'iter burocratico delle loro richieste, per quanto non mi fosse mai chiaro a chi esattamente le avessero indirizzate. Le situazioni da risolvere, dicono gli occupanti, possono essere divise nel modo seguente: quella degli ospiti che hanno ricevuto risposte negative ma che successivamente hanno saputo poco o nulla dei loro appelli; quella di coloro che hanno ricevuto risposte positive ma non hanno ancora materialmente ricevuto i documenti indispensabili a viaggiare; e quella di quanti sono ancora in attesa. 

All'interno di quest'ultima categoria c'è Abab, un giovane pakistano che ormai da tre mesi aspetta una decisione sulla sua richiesta di asilo, nonostante le linee-guida fornite agli ospiti dichiarino che essi debbano ricevere risposta entro un mese e mezzo dall'intervista presso la commissione trapanese. Abab mi parla dei suoi problemi cardiaci, che sono cominciati dopo il suo arrivo in Italia, dell'infarto che ha subito, e della sua delusione riguardo alle cure che riceve. “Il prossimo appuntamento ce l'ho fra sei mesi!”, lamenta. “Se muori prima di un appuntamento, ti chiedo, chi ci va al tuo posto?”

La lamentela di Abab, per quanto ovviamente enfatizzata dallo stress della situazione in cui vive, ci parla più in generale dei problemi dei servizi pubblici in Sicilia – anche per gli italiani sei mesi di attesa non sarebbero inusuali. D'altra parte i problemi economici italiani non sono affatto sfuggiti all'attenzione degli occupanti durante questi mesi, questi anni: un giovane gambiano gesticola verso i suoi compagni intorno a noi e mi dice che quanti rimangono nel centro sono quelli che non possono raggiungere parenti o amici in altri paesi. La maggior parte degli ospiti che hanno ricevuto risposte negative dalla commissione sono già partiti per la Germania, preferendo l'illegalità al rimpatrio.

Mentre molti hanno lasciato il centro, nuovi arrivati continuano a riempirlo. Un giovane nigeriano mi racconta di essere stato trasferito da poco a La Locanda da un centro con circa 50 persone a Piana degli Albanesi, chiuso alcune settimane fa, i cui ospiti all'inizio sono stati portati a Trapani: “Ho visto prigioni migliori”, dice. Hanno rifiutato di starci, e in segno di protesta si sono accampati davanti alla questura. Due settimane dopo si ritrova qui, in mezzo ad un'altra protesta. È convinto che lui e i suoi compatrioti siano trattati così male, “come schiavi”, a causa della loro pelle scura, e ha notato che i siriani, più chiari, sembrano essere meglio accolti in Europa.

Il maltrattamento al centro non ha a che fare soltanto con la mancanza di documenti. Emerge una quantità di lamentele: niente televisione per passare il tempo; wifi insufficiente per stare in contatto con le famiglie (molti hanno figli in patria); una generale sfiducia nelle cure mediche che ricevono; che gli viene servita ogni giorno pasta “buona soltanto per dei bambini”. Che sembra impossibile contattare gli avvocati. Che non c'è abbastanza shampoo. Può sembrare che chiedano cose che vanno oltre il livello della “schiavitù”, per quanto indispensabili nella vita moderna. Tuttavia ognuna di esse va vista nel contesto della apparentemente eterna attesa dei documenti, la zona grigia della vita vissuta in una sala d'attesa. A Tijan, un altro giovane gambiano che indossa un cappello e una catena con i colori dell'Etiopia, chiedo che cosa si aspettasse prima di arrivare in Italia. Timidamente, con pacatezza, mi risponde che pensava soltanto di ottenere velocemente i documenti e, “con l'aiuto di Dio”, trovare lavoro.

Bloccare le strade era il tentativo di realizzare questi desideri. Infatti quest'estate gli ospiti avevano già bloccato il viale per un poco. Stavolta però hanno occupato anche l'edificio. Quando martedì mattina è arrivato il furgone con i pasti, lo hanno mandato via, mentre si assicuravano il possesso dei campi. In un primo momento gli occupanti hanno dichiarato alla polizia di non volere consegne, ma quando hanno cambiato idea le consegne erano state cancellate dal centro, con la scusa che il cibo potesse essere distribuito soltanto dagli operatori. Ovviamente gli ospiti non sono d'accordo, dal momento che si rendono perfettamente conto che si tratta  di un tentativo di negoziare. Tra l'altro, la protesta ha coinciso con la distribuzione della “paghetta” mensile di €75, il che significa che non hanno avuto nemmeno abbastanza soldi per comprare da mangiare.

Poco dopo il mio arrivo il negoziato con la polizia – fra inconsistenti minacce di rimpatrio forzato – ha avuto come risultato che sono stati ammessi nei campi alcuni agenti, insieme al manager, a un paio degli operatori e a un traduttore. Un agente mi ha chiesto che cosa pensassi della protesta, che cosa rappresentassero davvero le richieste. Sembrava credere che la protesta fosse indirizzata contro gli operatori o il manager, piuttosto che prendere le parole degli occupanti per quello che sono, ovvero che la loro protesta è diretta contro le autorità trapanesi. Al di là delle critiche nei confronti del centro, gli ospiti non hanno indirizzato la loro rabbia verso il manager o gli operatori, ma piuttosto verso il sistema nel suo complesso. D'altra parte sanno benissimo che altrove le cose non vanno affatto meglio.

La polizia ha chiesto che gli ospiti fornissero una lista di coloro che protestavano per avere i documenti, cosa che gli occupanti hanno subito interpretato come una richiesta dei nomi delle “teste calde”. Alla fine comunque le due parti sono arrivate ad un accordo secondo il quale venerdì mattina quattro rappresentanti sarebbero andati alla questura e avrebbero esposto i problemi di ognuno degli ospiti, a condizione che se non ci fossero stati progressi entro lunedì, avrebbero rioccupato l'edificio. Così giovedì tutto era tornato alla normalità. È arrivato il furgone dei pasti, gli operatori hanno distribuito il cibo. L'istituzionalizzazione, con la cultura paternalista che implica, ha ricominciato il suo ciclo ripetitivo. La rottura di tale ripetizione, l'emergere di una voce collettiva, è stata nuovamente sommersa sotto i ritmi quotidiani di una vita di privazione.

Nel sistema di accoglienza italiano proteste di questo tipo non sono nuove: sit-in e blocchi stradali sono frequenti, e nelle scorse settimane a Lampedusa il potenziamento delle operazioni di identificazione tramite rilevamento delle impronte digitali è stato interrotto da scioperi della fame e manifestazioni. Coloro che sono coinvolti in queste attività, che premono contro un sistema che li rende dipendenti da magre elemosine statali in una nebbia di attesa senza fine, non hanno alcuna particolare rete, linguaggio in comune e nemmeno le stesse posizioni legali. Forse il loro unico momento unitario è costituito da questo: la differenza tra le aspettative di una vita da condurre in Europa – con l'accesso a vere cure mediche, mercati del lavoro e svaghi – e la realtà nella quale sono rimasti sospesi, nascosta alla vista della società. Un limbo fra i fichidindia e gli uliveti, concepito per produrre gente priva di documenti. Il divario tra questi due punti, l'umile sogno e l'inquietante realtà, viene riempito dalle voci arrabbiate e intransigenti di persone come gli occupanti di La Locanda, il cui coraggio potrebbe essere l'unica speranza di mettere fine a tale sistema.

Richard Braude

Tradotto di Gabriele S.