martedì 10 maggio 2016

Numeri, non persone. La prima accoglienza da Pozzallo a Siracusa

2000 migranti soccorsi, 20 dispersi, 697 sbarcati al porto di Augusta, 400 trasferiti al Cara di Mineo, 270 trattenuti in modo prolungato all’hotspot di Pozzallo. Liste di numeri riempiono i giornali e i comunicati stampa ormai da anni, sfilando tra l’indifferenza generale della cittadinanza, spesso purtroppo anche di quella che si dice attiva e pronta ad autorganizzarsi. Perché l’abile lavoro di disinformazione dei media è quello di non dare il tempo e la possibilità ad ognuno di associare i numeri alle storie, ai progetti ed ai corpi di persone che non sono nate e cresciute tra i confini blindati della Fortezza Europa. 

Non solo informazioni parziali e spesso imprecise ma anche abili giochi linguistici che a volte ribaltano i ruoli degli attori in scena; succede quindi che un famoso quotidiano siciliano descriva le proteste avvenute pochi giorni fa all’interno dell’hotspot di Pozzallo dipingendo le forze dell’ordine e le istituzioni come vittime senza alcuna responsabilità. La realtà dei fatti è che all’interno dell’hotspot è in atto una sistematica violazione dei diritti umani e degli obblighi umanitari previsti da leggi internazionali, nazionali e dalla nostra stessa Costituzione. Recentemente si è verificata l’ennesima situazione di sovraffollamento, sfiorando le 270 presenze a fronte della capienza massima di 180/220 persone, ma soprattutto circa una sessantina di minori non accompagnati sono trattenuti da quasi un mese senza poter nemmeno uscire nel cortile adiacente, chiuso da un alta cancellata e militarizzato. Le 72 ore massime di permanenza, la tutela del maggior interesse del minore, la presa in carico dei soggetti vulnerabili, il trattamento specifico e in spazi adeguati previsto per i casi di scabbia: nessuna di queste cose viene garantita, e periodicamente non lo è stata da anni, con continue violazioni della legge che si ha ancora il coraggio di giustificare con l’emergenza, i grandi numeri e la criminalizzazione di ogni forma di protesta da parte di chi viene illegittimamente trattenuto. Scuse che hanno una presa facile sulla popolazione e soprattutto sono presentate come situazioni inevitabili per cui non si profilano altre soluzioni possibili, ma che di fatto sono continue violazioni dei diritti e azioni disumane. La retorica dei media descrive le prassi illegittime dei governi europei come inevitabili e punta i riflettori sulla parte più umana che emerge dai salvataggi in mare, ma non fa nessun accenno alle soluzioni alternative e possibili che esistono e nessun governo ha la minima volontà di prendere in considerazione. I corridoi umanitari e l’opportunità di avere un accesso legale vengono velocemente nominati per dovere di cronaca o solo in occasione delle ennesime stragi che vedono la morte di centinaia di persone. Per il resto l’impotenza e l’inamovibilità del sistema sembra indiscussa, e molti sono disposti ad accettarla, perché le vittime in questo caso sono i migranti, invisibili e senza voce. Cosa succederebbe infatti se il perpetrarsi di queste continue violazioni avvenisse a discapito dei cittadini italiani? O se le politiche europee intaccassero direttamente i nostri interessi? Forse non si lascerebbero cadere così facilmente questioni davvero cruciali e non si cadrebbe nell’inganno demistificatorio della disinformazione promossa dalle istituzioni. E di questo sistema vedremmo anche tutta la sua violenza. Intanto per molti la cosa più facile è convincersi di essere nel giusto, dimenticando che uno Stato che non rispetta gli stessi diritti di cui si è fatto garante non può che destare paura e preoccupazione fra i suoi elettori. 
Nel frattempo i migranti appena approdati vengono privati della loro soggettività per essere controllati come numeri da un sistema. Identificati, selezionati, ammassati, si perdono tra le centinaia di loro compagni di viaggio che saranno gli unici con cui mantenere un contatto umano diretto almeno per i primi giorni. Ad inizio settimana incontriamo alcuni migranti sistemati all’interno dell’hotspot di Pozzallo: in seguito alle ultime proteste vediamo alcuni, presumibilmente minori, giocare a pallone nel cortile dell’hangar, sorvegliati dalle forze dell’ordine. Forse qualcosa sta cambiando, ma non si sa né per quanto né perché. E ci auguriamo che sia l’inizio del ripristino della legalità e solo una casualità l’imminente apertura di un Festival organizzato dall’associazionismo nazionale che porterà migliaia di persone in città da tutto il mondo. I migranti con cui parliamo hanno avuto l’autorizzazione ad uscire dall’hotspot dopo i primi tre/quattro giorni e ci dicono di essere arrivati il primo maggio “noi siamo fortunati, qui solo da una settimana. Molti sono rimasti più settimane” Come altri sono all’inizio diffidenti e ci lasciano parlare per capire chi siamo, ma una volta tranquillizzati non vorrebbero più smettere di raccontare e chiedono spesso la traduzione in italiano, per iniziare a “capire”: “mi spiace ma il mio primo approccio con l’Italia non è stato di benvenuto, quindi ovviamente non posso fidarmi di nessuno. Anche se sono grato a chi mi ha aiutato a non morire. In Libia non ho praticamente dormito una sola notte in cinque mesi perché ogni piccolo movimento poteva portare con sè una minaccia di morte. La guerra è dappertutto, visibile e non; ti sparano nelle gambe, appena vedono che sei nero minacciano di buttarti in prigione, ho visto io stesso alcuni ragazzi essere trascinati via di peso per avere osato alzare lo sguardo verso i padroni. Appena arrivato in Libia capisci che non puoi sopravvivere a lungo, ma personalmente non sapevo che altra strada prendere per fuggire”. I racconti della Libia si interrompono per lasciare posto a brevi descrizioni del viaggio in mare, “molto molto lungo, soprattutto dopo i salvataggi”, subito deviate verso la situazione attuale. Tutti i migranti con cui parliamo sembrano consapevoli del fatto che il rilascio delle impronte in Italia condizionerà il loro percorso e li vincolerà al nostro paese per l’esame della domanda di protezione; hanno potuto fare una telefonata poco dopo l’arrivo e ora hanno ricevuto un credito telefonico, anche se trovare una cabina funzionante non è impresa da poco e i soldi bastano a salutare solamente parenti e famiglie molto lontane. “Siamo all’interno del campo (l’hotspot) da una settimana ed è già la terza volta che ci danno una data in cui saremo trasferiti per poi dirci che dobbiamo aspettare, perché?” Uno dei ragazzi mi porge un foglio con le sue generalità e la sua foto in cui effettivamente viene indicata come data di trasferimento il 9 maggio, cioè il giorno in cui ci vediamo. Sono però ormai le sei di sera ed anche oggi quindi il suo spostamento non avverrà. “Il problema è che non ci sanno spiegare perché e non capiscono che uno passa tutto il giorno ad aspettare di andare via e poi rimane molto molto deluso. Potrebbero non dirmi nulla, questa è già la terza volta.” Oltre al sovraffollamento e alla mancanza di ogni possibile privacy  “stiamo tutti nella stessa stanza, uomini, donne e bambini” i ragazzi sottolineano più volte come sia impossibile avere dei vestiti puliti. “Abbiamo ricevuto dei vestiti appena arrivati, poi basta. Il problema è che se uno fa la doccia (fredda) poi non puoi avere altri vestiti per tutto il tempo che è qui. Alcuni avevano gli stessi indumenti per settimane. Non chiedo un guardaroba ma almeno un altro cambio, per lavarmi quello che indosso”. Il prolungamento delle permanenza oltre le 72 ore previste dovrebbe prevedere anche l’erogazione di servizi aggiuntivi, cosa che l’ente gestore sembra anche in questo caso ignorare. Attualmente i migranti presenti al centro sembrano essere un centinaio; fra di loro, ci dicono i ragazzi, migranti dalla Nigeria, Gambia, Senegal, Guinea Conakry e anche una decina di eritrei, forse trattenuti fino a quando non rilasceranno le impronte, visti i tempi di solito più celeri con cui si trasferiscono i destinatari della relocation. Intanto per i migranti arriva il momento del rientro e si devono affrettare “Siamo numeri, se uno manca non tornano i conti. Ma quando saremo trasferiti ritorneremo persone”. 
Frasi simili ci sono state rivolte anche pochi giorni fa presso il centro Umberto I di Siracusa, struttura di primissima accoglienza il cui status giuridico non è mai stato chiarito a sufficienza da istituzioni ed ente gestore. Arriviamo a metà pomeriggio e notiamo subito come sempre il polibus di Emergency a ridosso dell’entrata con diversi migranti che attendono di essere visitati o semplicemente di poter scambiare due parole in una lingua a loro comprensibile.  Altri si avviano da soli o in piccoli gruppetti sulla strada, per percorrere la manciata di chilometri che li separa dal supermercato e dalle vie più trafficate della città. Ne intercettiamo alcuni e la cosa che ci sorprende maggiormente è la loro prima richiesta: “abbiamo fame!” Dopo pochi secondi intuiamo che la traduzione a questa frase è: “non abbiamo soldi!” Scopriamo quindi che la maggior parte di loro è arrivata qui dal porto di Augusta una o due settimane fa, e da allora non ha avuto nessun tipo di elargizione di denaro, né in contanti né sottoforma di schede telefoniche o altro. Per i centri di primissima accoglienza, a cui l’Umberto I dovrebbe potersi comparare, è prevista in realtà l’elargizione di un kit igienico e di vestiario e solitamente schede telefoniche per la permanenza prevista e consentita dalla legge di massimo 72 ore. Si ripresenta però il problema simile a quello riscontrato dai migranti presenti nell’hotspot di Pozzallo: finite le 72 ore non ci sono servizi aggiuntivi. Con l’aggravante quindi non solo di non sopperire ad una propria mancanza ma ancor di più, presso il centro di Siracusa, di non fornire nemmeno ai migranti la possibilità di fare una telefonata. La richiesta di cibo nasconde quindi non la mancata erogazione dei pasti che avviene in modo regolare anche se con scelte discutibili “pasta a pranzo e cena”, ma il totale abbandono di un sostegno dopo i tre giorni di permanenza previsti dalla legge. “Tutti aspettiamo di essere trasferiti e cerchiamo di non pensare a chi è qui da mesi.” Alcuni dei ragazzi con cui parliamo ci confermano infatti di aver conosciuto migranti rimasti per diverso tempo in questa struttura, come il caso di un ragazzo in carrozzina che abbiamo conosciuto un anno fa e sappiamo essere stato trasferito solo di recente, dopo ben 11 mesi passati all’interno di una struttura totalmente inadeguata! “Alcuni tra di noi stanno male, c’è un altro ragazzo che non riesce a camminare e quindi nemmeno può uscire come noi”. L’assistenza medica ai casi vulnerabili presenti all’interno del centro viene fornita dal team di Emergency ma i trasferimenti verso strutture idonee sembrano non essere la priorità di istituzioni, ente gestore e Prefettura che dovrebbero per legge attivarsi in tutto il territorio. Intanto i migranti aspettano in un limbo silenzioso e nascosto, in condizioni che possono solo aggravare la situazione di chi già è più fragile e avrebbe diritto ad una tutela maggiore. Ma insieme a migranti trattenuti oltre il tempo previsto e persone vulnerabili, scopriamo che all’Umberto I soggiornano anche diversi “testimoni” che hanno collaborato alle indagini e portato all’arresto dei “presunti scafisti” al momento dell’arrivo. Riusciamo a parlare con uno di loro, che dice di non essere il solo in questa condizione ma non vuole dirci molto altro: “quando sono arrivato al porto la polizia mi ha fatto molte domande. Ho risposto a tutte, anche se all’inizio avevo sete, ero stanco, non capivo nemmeno bene cosa mi stava succedendo. Poi ho ripetuto le stesse cose altre volte. Ora sono qui ma non capisco cosa mi capiterà, perché non ho nessun foglio in mano, a differenza degli altri”. Continua quindi la prassi deleteria dell’abbandono dei migranti funzionali alle indagini e poi lasciati in balia di sé stessi, senza nessun supporto da parte delle istituzioni. Cerchiamo quindi di domandare al “testimone” se ha contatti con il suo avvocato o riferimenti a cui chiedere spiegazioni, ma comprendiamo che il suo momento di apertura verso l’esterno si è esaurito, e forse sta già dubitando se anche questa volta non sia stato troppo avventato fidarsi ancora di qualcuno. Intanto alle sue dichiarazioni saranno certamente seguiti nuovi arresti, altri numeri da fornire in pasto alla stampa ed all’opinione pubblica per incrementare la fiducia in un sistema ipocrita e causa degli stessi crimini che va poi a denunciare. Un sistema così disumano che deve per forza fermarsi ai numeri, per continuare a violare i diritti delle persone.
Lucia Borghi
Borderline Sicilia Onlus